Transizione o conversione ecologica
“Cari ambientalisti dobbiamo ascoltarci di nuovo con umiltà”
di Paolo Piacentini – fb
29 marzo 2022
Cari compagni di viaggio di un ambientalismo che sposava la sfida della complessità perché non riusciamo più a dialogare? Cosa è successo?
L’emergenza continua sta sempre di più polarizzando le posizioni, ci mancava la guerra alle porte di casa per annullare qualsiasi possibilità di dialogo.
Le fonti rinnovabili che diventano spazio del conflitto tra ambientalisti invece di essere al centro di un nuovo modello socio-economico attraverso la diffusione di comunità energetiche che, oltre alla produzione, ottimizzano il risparmio (oggi più che mai dovrebbe essere la prima voce) e l’efficientamento.
Ma come è possibile che chiunque prova ad opporsi ad impianti industriali (usiamo le parole giuste) in luoghi fragili dove si va ad impattare per sempre sulla tenuta del suolo, sulla biodiversità e paesaggio viene attaccato, in primis, da vecchi compagni di viaggio come fautore delle energie fossili?
Ma perché sta accadendo questo, a chi giova la frammentazione di un fronte che doveva essere compatto per andare davvero verso una conversione ecologica?
Non si accetta più che ci possano essere luoghi dove la produzione industriale da fonti rinnovabili è troppo impattante e quindi in un calcolo serio dei vantaggi dal punto di vista ambientale si va in negativo.
E’ mai possibile che il male assoluto è la burocrazia che blocca tutto quando invece a mancare è una pianificazione seria a monte? Godono ovviamente di questa ennesima polarizzazione, in un mondo che dovrebbe andare nella stessa direzione, i poteri economici che si stanno riciclando verso al produzione energetica non certo con la logica delle comunità energetiche ma dell’approccio industrialista e tecnocratico.
Cosa vuol dire additare chi prova a sfidare ancora la complessità dichiarandosi a favore delle rinnovabili ma mettendo l’accento sulla necessità di verificare puntualmente i territori dove si va ad impattare?
Vuol dire che le grandi associazioni ambientaliste sparate solo sull’emergenza climatica hanno deciso di abbandonare le lotte dei comitati locali a prescindere considerandoli a priori, senza ascolto, malati della sindrome di Nimby?
Possibile che il potere economico è riuscito, in questi ultimi, anni a spaccare in profondità un fronte che doveva unirsi per ridare all’ecologia politica un volto umano?
Cosa vuol dire, senza nessuna possibilità di pianificare in modo serio, che se non si realizzano velocemente impianti in ogni dove si perde la sfida ai cambiamenti climatici?
Se costruisco un impianto su un crinale fragile soggetto a dissesto idrogeologico ne accelero la possibilità del danno e la stessa cosa accade se devo disboscare una faggeta molto importante per la biodiversità, il paesaggio e l’assorbimento della CO2.
Ecco perché insisto sulla pianificazione che dovrebbe decidere l’impossibilità di realizzare impianti industriali in quelle aree dove il bilancio ecologico (intendo per ecologico il rapporto equilibrato tra tutela ambientale, biodiversità e paesaggio) risulterebbe negativo, anche considerando il contributo ad abbattere i gas climalteranti.
C’è ancora tempo per ricomporsi intorno, non ad una ormai annacquata ed inquinata transizione ecologica, ma per una conversione ecologica che non dipenda solo dalla tecnocrazia e da una finanza verde che cambia solo verso al profitto immediato.
Se davvero vogliamo costruire comunità energetiche che tengano conto delle vocazioni territoriali e far ricadere i benefici sulla collettività nell’ottica del bene comune, dobbiamo ascoltarci di nuovo con umiltà.
di Paolo Piacentini – fb