La Retroinnovazione
Il termine sembra un ossimoro, eppure si adatta bene al nostro tempo apparentemente ubriacato di nuovo
di Rossano Pazzagli (da La Fonte aprile 2021)
21 aprile 2022
Il termine “retroinnovazione” sembra un ossimoro, eppure si adatta bene al nostro tempo apparentemente ubriacato di nuovo ma, in realtà, afflitto dalla fine del mito del progresso e della crescita illimitata. Innovazione non significa più, necessariamente, andare avanti. Ce ne rendiamo conto appena mettiamo da parte l’ottica dal presentismo, una diffusa abitudine mentale egoistica e individualistica, per spostare lo sguardo sul fluire del tempo, cercando di connettere il passato col futuro, che sono i due veri tempi lunghi della storia. Il presente è solo il punto di connessione, sincronico e fuggente, tra queste due fondamentali grandezze della vita.
Ai miei studenti dico spesso che faccio lo storico perché mi interessa il futuro, perché siamo preoccupati per i problemi del presente e siamo attratti dal futuro, dove tutti andremo ad abitare. Per questo diventa necessario conoscere il passato: guardare indietro per andare avanti, come un Giano bifronte, il misterioso dio romano che guardava contemporaneamente avanti e indietro, o come il marinaio che senza bussola si trovi a navigare nella tempesta col cielo nuvoloso o senza stelle; egli ha un solo modo per andare dritto: voltarsi alle spalle e guardare la scia della barca. Restare o tornare sulla retta via: è questo il nostro compito primario, che attiene al sistema dei valori, ai diritti universali, a partire da quelli dell’uguaglianza, della solidarietà e della libertà, al nostro rapporto con la natura e al nostro agire quotidiano.
Questo approccio riguarda in particolare la gestione del territorio rurale e il sistema agroalimentare. Secondo Alberto Magnaghi, massimo esponente del pensiero territorialista italiano, la rivitalizzazione dei paesaggi rurali storici è uno degli scenari su cui applicare i processi di retroinnovazione attraverso la riattivazione di saperi ambientali che possano riportare in armonia la relazione uomo-natura e di rispondere ai problemi più generali del cambiamento climatico (Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, 2020). Proprio la storia dell’agricoltura e del paesaggio ci mostra le fasi e i territori in cui ha prevalso un modo di produzione contadino meno dipendente dal mercato, più orientato alla policoltura e in grado di autoriprodurre le risorse utilizzate nel processo produttivo. Un sistema semplice che produceva complessità ecologica chiudendo i cicli ambientali, alimentando filiere e identità locali con effetti positivi sulla qualità del cibo e del paesaggio. In questi sistemi la solidarietà si sostituiva alla competizione, che poi invece è diventata quasi un imperativo. Oggi occorre rimuovere questa ossessione competitiva se non vogliamo che i propositi di transizione ecologica restino soltanto formali, limitati ai nomi delle cose più che alla sostanza dei processi.
Tornando alla campagna e al complesso articolato territorio rurale, i distretti o ancora meglio i biodistretti (o i distretti del cibo) possono rappresentare l’ambito di applicazione di nuove metodologie, nella prospettiva di nuovi modelli ispirati al concetto della retroinnovazione, basato a sua volta sulla conoscenza storica dell’agricoltura, del lavoro agricolo, delle tecniche e del paesaggio. Si pensi, a titolo di esempio, alle rotazioni, al sovescio, all’integrazione tra coltivazione e allevamento, alle strutture comunitarie di trasformazione dei prodotti, alle sistemazioni del suolo… La storia è piena di pratiche che il presente non conosce più, e che quindi risultano ‘nuove’ ai nostri occhi. Ormai è ineludibile la necessità di elaborare un diverso modello agroalimentare, che partendo dagli antichi saperi contadini possa coniugare le esigenze di innovazione alla richiesta di cibo sano e di qualità, il lavoro agricolo con la cura del territorio e del paesaggio. Ciò può avvenire riunendo saperi esperti e saperi contestuali e adottando un approccio locale (non localistico, ma locale).
Come definito in alcuni studi di sociologia rurale, infatti, il concetto retro-innovazione concerne la capacità dei soggetti locali di valorizzare saperi e attitudini del posto per reinterpretarli in modo nuovo e socializzato attraverso percorsi di innovazione socio-economica, o come l’attitudine da parte di attori sociali impegnati nell’agricoltura a ricorrere a conoscenze pregresse reinterpretandole ed utilizzandole in contesti e circostanze contemporanee. In questo senso le retro-innovazioni, frutto della ricontadinizzazione di cui parla il sociologo olandese Van der Ploeg, possono riguardare i prodotti, i processi di produzione e i servizi collegati all’agricoltura e al rapporto tra agricoltura e società (I nuovi contadini, Donzelli, 2008; questa impostazione è stata ripresa in Italia dall’ antropologa Alessandra Guigoni in “Antropologia Museale”, 2013-14). Adottando il principio e le pratiche della retroinnovazione le campagne possono essere il teatro di una nuova cultura agro-ecologica e di un nuovo rapporto tra locale e globale. Si tratta di ridare forma e sostanza al lavoro agricolo nella sua dimensione multifunzionale, ad una agricoltura produttrice di cibo e di paesaggio, di ambiente e di valori sociali per rifuggire l’idea di un tempo senza storia.
di Rossano Pazzagli (da La Fonte aprile 2021)
di A. C. La Terra