Il pane di una volta
La tradizione popolare pensava che il pane non dovesse essere mai messo con il segno di croce capovolto
di Arnaldo Brunale
24 maggio 2022
Ma perché il pane di una volta era più buono di quello attuale e restava fresco per molti giorni? Forse perché era fatto in casa diversamente da quello di oggi che è di tipo industriale? Molto ricordo del “rito del pane” fatto in casa. Ancora ho davanti agli occhi quando mia nonna materna e, di conseguenza le nostre mamme, si alzava di buon mattino per impastare (ammassà’) la farina in un recipiente di legno (mésa) insieme all’acqua, al sale ed al lievito preparato la sera prima. Molto spesso univa a questi ingredienti anche una buona dose di patate (patane) che serviva a mantenere fresco il pane più a lungo, anche se, verosimilmente, si pensa che si ricorresse a questo espediente per recuperare il quantitativo di farina da riservare ad altri usi come, ad esempio, la lavorazione della pasta fatta in casa. L’impasto era lavorato dalla massaia con le sole forze delle braccia fino ad ottenere un prodotto compatto e liscio, che, poi, veniva coperto con teli di lana per lasciarlo riposare alcune ore. L’operazione successiva consisteva nel suddividere la pasta in panetti di varie grandezze per ricavarne forme di pane (paniélle) da tre, quattro o cinque chili, che si provvedeva a segnarli con una croce contro il malocchio prima di inserirli in cesti di giunchi (canistre). Una volta ultimata l’intera procedura, spettava all’uomo portare i canestri al forno (furne) per la cottura del pane. A margine di questa operazione molto faticosa, la donna preparava anche alcune pizze al pomodoro (pizze c’ le pummaróle) da consumarsi la sera stessa dell’infornata. Il ripiano su cui era stata lavorata la pasta veniva pulito con un piccolo arnese metallico a forma di zappetto (rarétore). Con i residui ottenuti si faceva un biscotto molto duro (curnizze) particolarmente gradito ai bambini. Le famiglie contadine, invece, cuocevano il pane in proprio, servendosi del forno situato all’esterno della loro casa colonica.
Una curiosità riguardava il modo di poggiare il panello di pane sulla tavola. La tradizione popolare pensava che esso non dovesse essere mai messo con il segno di croce capovolto per evitare di oltraggiare nostro Signore, annullando, così, la sua protezione dalle disgrazie, come, ad esempio, la morte del capofamiglia. Questa specie di rito scaramantico, invece, era legato più credibilmente ad una usanza risalente al periodo borbonico, quando il fornaio era solito regalare, ad ogni infornata, una pagnotta di pane al giustiziere addetto al patibolo nella riposta speranza di evitare, con quel gesto apotropaico, una eventuale condanna a morte per sé e per i suoi familiari. La forma riservata al boia veniva poggiata sul ripiano del bancone con il verso contrario alle altre, ovvero con il segno della croce riverso su di esso, per distinguerla dalle altre che avevano il segno della croce rivolto verso l’alto. Un’altra credenza molto diffusa nelle nostre famiglie era quella di non buttare mai il pane raffermo perché, essendo “grazia ‘è Ddῑe”, chi lo avesse fatto avrebbe offeso il Signore. Esso veniva riutilizzato e mangiato, dopo averlo bagnato nell’acqua dei legumi o delle cime di rapa, condito con olio e sale (panecuōtte). La stessa cosa si faceva quando cadeva a terra un pezzo di pane. Esso veniva raccolto, baciato nel rispetto divino, e mangiato. Anche qui, probabilmente, la verità è legata più alle ristrette risorse finanziarie di una famiglia, che economizzava su tutto, che al rispetto di un credo religioso.
di Arnaldo Brunale