• 8 Settembre 2022

Paesi contro Borghi 

Prolegomeni alla rinascita di un paganesimo antico

di Giampiero Lupatelli

8 settembre 2022

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Nella ampia e inattesa mobilitazione di attenzioni che, la pubblicazione del pamphlet “Contro i Borghi” ha suscitato attorno a temi, quelli delle politiche territoriali, che ordinariamente riscuotono poco o punto interesse, è particolarmente degna di nota l’insegna lessicale sotto le quale si radunano le truppe impegnate nel conflitto.
Una contrapposizione tra Paesi e Borghi che fatica ad entusiasmarmi, non trovando ragioni sufficienti di una preferenza, tanto nell’etimo quanto nel sapore delle evocazioni letterarie. Ricorderei peraltro che tanto Leopardi come Pavese mitigano la scelta del lemma con l’attribuzione degli attributi (natio e selvaggio) o con la scelta dei predicati (andarsene via).
Una contrapposizione che rischia invece di affondare le sue radici nelle ideologie sopite su cui ironizza con sarcasmo garbato Dario Di Vico, irridendo, nell’immagine dei “Borghi distrutti dai borghesi”, quel tanto di resistenza anticapitalistica che traspare dalle pagine del pamphlet.
Gli autori del quale, peraltro, sono in misura tutt’altro che marginale amici molto cari e, di più, compagni di avventura nella tradizione recente ma ormai storica delle Aree Interne e nella vita della Associazione Riabitare l’Italia. Mi perdoneranno se quindi mi associo alla diffidenza di un vecchio sindacalista come Di Vico nei confronti dei loro approcci antagonisti e non mi avventuro a far loro compagnia nella ricerca di significati profondi si sapore culturale, per articolare un giudizio, negativo il mio come il loro, sulla politica che il Ministero per la Cultura ha messo in campo nella occasione del PNRR attorno all’investimento sulla attrattività dei borghi.
Un investimento tecnicamente sbagliato nel concreto disegno della sua operatività, molto più e assai prima che per l’essere la censurabile (?) espressione di una ideologia consumistica di mercificazione della autenticità dei territori.

Parto allora proprio dal punto di vista del Ministero della Cultura (soprattutto quando era ancora dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo) non pretendendo che questo debba necessariamente piegarsi al volere (e tanto meno ai valori) dei “territori”.
Punto di vista che è quello di rendere sostenibile un flusso di fruizione culturale del nostro Paese non riducendolo alla ormai scossa capacità di carico delle grandi città d’arte e riuscendo invece a diffonderlo e dipanarlo nella più estesa ed articolata rete di presenze culturali che, come nessun altro, il nostro Paese è in grado di vantare. Accettiamo, dunque, che la politica del MIC sia innanzitutto una politica di sostegno alla valorizzazione culturale e fruitiva di un patrimonio territoriale esteso e distribuito, certo non uniformemente, in tutti i contesti locali del nostro insediamento urbano e rurale plurimillenario.
È questa motivazione (che interpreta essenzialmente la missione del Ministero) ad essere in contrasto con una prospettiva sostenibile e duratura di sviluppo locale dei territori montani e rurali cui con il Bando Borghi si rivolge?
Io, che pure non sono un focoso sostenitore delle salvifiche e mirabolanti possibilità del turismo nel riscattare la fragilità economica dei territori dell’Italia minore (o dell’Italia intera come talvolta accade di sentire!), non lo penso affatto.
Penso che agire sul valore culturale dei luoghi, sulla costruzione di una loro più efficace rappresentazione nell’immaginario di una domanda internazionale ormai abbastanza sofisticata da potersi inoltrare sulla rete dei cammini rivolgendo la propria attenzione alle 200 città storiche (e ai 20.000 borghi) delle aree interne e montane italiane non faccia necessariamente a pugni con la crescita di una visione – identitaria ma cosmopolita – del possibile successo di questi luoghi per come è e può essere espressa dalla popolazione locale. Meglio dalle popolazioni locali, articolate ormai all’interno di ciascuna pur minuscola realtà, per storia, per motivazione e per intensità e durata del proprio legame affettivo (ma poi anche funzionale) con i luoghi.
Perso che, in questo, il punto di vista nazionale, della promozione sostenibile del turismo culturale possa incontrare senza troppe difficoltà gli interessi locali.
Penso però che la strada scelta per dal Ministero della Cultura per costruire questo incontro sia sommamente inappropriata e destinata a un modesto successo.
Intanto lo è per la scelta di affidare più metà delle risorse alla improvvida selezione, in ciascuna regione, di un unico luogo delle meraviglie sul quale concentrare risorse finanziarie troppo estese perché non prevalga la logica del cantiere con tutti i suoi appetiti.
20 milioni di euro per intervenire con soli investimenti pubblici in agglomerati di poche centinaia di unità immobiliari. Una sproporzione evidente ad ogni osservatore adulto, tranne forse alle Archistar infantilmente attratte dal clima favolistico da mille e una notte accarezzate nella consuetudine con una committenza internazionale opulenta e globalizzata.
Questa scelta di per se porta fuori dal perimetro delle politiche di sviluppo locale. Esprime una logica estranea e indifferente rispetto alla capacità del tessuto economico locale di metabolizzarne l’impatto; un tessuto sempre e comunque troppo gracile, per quanto estensiva sia la delimitazione che del locale si voglia dare.
Non lo dico con preoccupazioni sulla trasparenza e la legalità della spesa. Presumo sempre la correttezza e la legalità, fino a prova contraria. Lo dico invece con la seria preoccupazione che manovre civetta di questa natura abbiano la capacità di innescare con efficacia processi di rigenerazione che agiscano con profondità ed estensione. In uno spazio montano e interno dei piccoli comuni che vale comunque due terzi della estensione territoriale del Paese.
Un territorio così esteso e complesso nel quale anche un tesoro consistente dilapidato in 20 punti topici si diluisce facilmente senza sedimentare effetti durevoli. I resort di varia natura e nome che il capitale finanziario ha realizzato nel profondo rurale italiano per ospitare – più o meno temporaneamente – l’immigrazione colta del nord Europa non hanno lasciato traccia, anche quando non hanno fatto scandalo.
Né molte migliori attese ho per la seconda metà del Bando, quella di impronta democratica e non aristocratica; quella che premia 200 di 2000 borghi di cui si sono sollecitate le aspettative e mobilitate le risorse – anche finanziarie – per dare seguito alla illusione di una vincita alla lotteria.
Intanto perché ha volutamente solleticato con le sue regole di ingaggio un approccio introverso e autarchico dei comuni, che è esattamente il contrario di quel che una politica territoriale matura doveva fare. Lo ha fatto stabilendo limiti artificiosi: non più di tre comuni e comunque con una popolazione complessiva superiore alla massima del singolo comune ammesso, con una premialità della associazione tanto micragnosa da affidare a ciascun singolo partecipante associato molte meno risorse di quelle che il successo di una partecipazione singolare avrebbe assicurato.
Poi l’uso burocratico degli adempimenti formali, anche marginalmente disattesi, come ragione di esclusione utile a diradare comunque il campo dei pretendenti e, ancora peggio, il rifiuto di consentire l’accesso agli atti per consentire di conoscere le valutazioni della scelta, per larga quota largamente discrezionali.
Insomma una manifestazione di insofferenza e disprezzo nei confronti delle ragioni dei pezzenti che a molti ha ricordato le lunghe e quasi sempre infelici battaglie che i pezzenti sono usi fare (e perdere) contro i poteri sovrani e immotivati, immotivanti e demotivanti delle Soprintendenze.
La cultura aziendale blasé permane, per quanto ci si rivesta di modernità e managerialità.

Recentemente, in uno scambio di battute che ho avuto con lei sui social, la Consigliera del Ministro lamentava come l’Italia sia un incredibile paese per la ingenerosità delle polemiche con cui è stata accolto il meritorio intervento del Ministero.
Nel sostenere “che questi finanziamenti ora ci sono e bisogna fare in modo che siamo spesi producendo rigenerazione culturale, sociale, economica duraturi (sic)” mi è parso che la Consigliera affermasse come le polemiche sulle concrete modalità di articolazione della politica sottraggano tempo ed energia al compito più importante che è quello di fare, mentre la critica al concreto disegno della politica poco aiuta a realizzare gli importanti obiettivi proposti.
Osservazione forse anche ragionevole, se provenisse da un osservatore terzo che del disegno della politica non porta responsabilità e , hic et nunc, si preoccupa comunque di portare il vascello in rada, facendo di necessità virtù e tacitando i bofonchiamenti dell’equipaggio cui l’armatore non ha dato le dotazioni giuste per la burrascosa traversata.

Così però non è, e il vigore delle polemiche dovrebbe essere metabolizzato contabilizzando nella incredibilità del discorso pubblico del nostro Paese, non solo l’inveterata abitudine alla polemica, ma anche la altrettanta inveterata disabitudine all’ascolto.
In questo caso il mancato ascolto delle indicazioni critiche ampiamente e tempestivamente espresse sul disegno della politica del Bando Borghi che avrebbero potuto evitare molte delle polemiche successive.
Insomma, la sordità del principe aumenta lo schiamazzo della soldataglia!

Penso che il tema dei Borghi, dei Paesi, della loro rigenerazione culturale e sociale abbia ancora bisogno di un confronto esteso, approfondito e non di circostanza, anche solo per definire i suoi confini. Un confronto che gli consenta di prendere forma e concretezza, di diventare consapevolezza matura e utile.
Sono molte le ragioni di insoddisfazione che – prescindendo da qualsivoglia processo alle intenzioni e alle motivazioni – mi spingono dunque a reclamare una forma più matura del discorso pubblico attorno a questa occasione sprecata.
Più lontane, sono per me le ragioni che nascono dagli echi, dalle polemiche e dai contrasti che la perigliosa attenzione di media e archistar ha fatto nascere, proclamando nei borghi la scoperta di nuovi mondi, poi invece negandone il valore.
Più vicine, quelle che traggo della frequentazione sistematica delle tante piccole realtà locali costrette – dalla ondata crescente di attenzioni estranee e di cure incerte – a misurarsi con culture diverse dalla propria che li interrogano curiose – e talvolta irriguardose – sulla stupefacente resistenza di mondi che si ostinano a permanere.
Consentitemi di ricorrere alla forma figurata e metaforica di un aneddoto.
In una giornata di questa primavera mi è sembrato di rivivere – mutato tutto ciò che è da mutare – la ripetizione di una sera di mezza estate vissuta più di quaranta anni fa. Ero allora ad Urbino con un amico e decidemmo di scendere in Romagna con destinazioni diverse. Il mio amico, di studi classici, si diresse al Festival del Teatro in Piazza, a Sant’Arcangelo di Romagna; io invece andai a vedere uno scontro decisivo e finale del campionato italiano di baseball che opponeva la forte formazione locale ai campioni del Nettuno.
Ci colpì, quando quasi casualmente ce li raccontammo, la simmetria dei fatti accaduti nelle nostre esperienze parallele. A Sant’Arcangelo, ad esprimere la sdegnosa insofferenza di una attempata e distinta signora milanese verso le intemperanze che il pubblico locale rumorosamente esercitava nei confronti di una esibizione – impegnativa nella durata della sua immobilità – del teatro Kathakali, questa gridò: “Vai a vedere Milan Inter!” Allo stadio, di fronte ad uno svarione imperdonabile dell’esterno destro della squadra locale che mancò una facile eliminazione al volo, costata invece tre punti, si alzò dalla tribuna un grido: “A t’mandom a Sant Arcanzoil, a te!” Simmetria perfetta delle due tifoserie, così diverse solo apparentemente.
Nella giornata di questa primavera che vi racconto, ho assistito invece al dilagare sui social media della fin troppo facile polemica sulla clamorosa presa di distanza di Carlo Ratti dalla stucchevole moda dei borghi (nei quali mai si potrà mai realizzare un foam party come si deve!), il cui snobismo poteva ricordare ai più vecchi tra noi le battute sulla corretta pronuncia del lemma “Boston” che aprono la Donna della Domenica di Fruttero e Lucentini.
La seguivo mentre rientravo da un piccolo seminario nella montagna reggiana che una classe della facoltà di architettura di Versailles dedicava agli scenari possibili che politiche territoriali di qualche successo (la Montagna del Latte della SNAI, tra queste) possono indurre sula evoluzione di due organismi elementari (ma non troppo) come quelli dei borghi di Sologno e di Nismozza. Una volontà di esplorare il locale con respiro cosmopolita mal sorretta da abilità linguistiche non troppo rodate. Snobismo dei colti e ingenuità dei locali. Come a Rimini, 40 anni prima.

Più puntualmente, l’oggetto cui si indirizza la mia attenzione e che propongo alla vostra sono i luoghi della montagna e delle aree interne nei quali la materialità dell’insediamento fisico e il campo gravitazionale delle relazioni comunitarie collassano per disegnare architetture e formazioni sociali riconoscibili.
Borghi, diremmo, se non avvertissimo che il nome si è un po’ logorato nella agiografia e nelle polemiche che li hanno travolti, nella pandemia prima, nel PNRR poi. Ma definirli meglio non so. Paesi mi sembra indulgere a una paesologia che non mi cattura.
Mi interessa proprio la trama delle qualche migliaia di luoghi (o forse decine di migliaia, ne ho in mente almeno cento per la sola montagna reggiana!) che rappresentano la dimensione dispersa e discreta dell’insediamento non urbano, distinta e opposta (e da integrare, naturalmente!) non solo alle realtà metropolitane e alle città di rango regionale, che stanno di norma al di fuori della montagna e con questa disegnano relazioni difficili per quanto necessarie, ma anche alle piccole aggregazioni e polarità di servizi che talvolta presidiano la montagna dall’interno e le garantiscono qualche maggiore resistenza.
Parlo di realtà il cui ordine di grandezza è quello delle decine e delle centinaia (di case, non sempre di abitanti); realtà nelle quali il presidio comunitario è essenzialmente tramandato dalla presenza di una chiesa e di un cimitero mentre fatica a mantenere nella modernità la dimensione del bar, evoluzione dell’osteria.
Questo è il tessuto esteso verso il quale l’azione di promozione della attrattività dei borghi andrebbe (andrà?) diretta. Perché sia davvero possibile credo che una riflessione matura debba interrogare almeno due distinti e diversi principali ordini di problemi.
Il primo – mi verrebbe da dire il più scontato –si deve interrogare sulla possibilità di esistere di questi luoghi, dunque sulla loro autosostenibilità, come mi sembrerebbero suggerire letture pur disordinate sulle pre-condizioni fisiche, ancora largamente inesplorate, della vita, con le visionarie costruzioni della più estrema ricerca degli architetti ecologisti di ultima generazione. Interrogarsi quindi sul loro metabolismo, sulla capacità di trasformare in valore le informazioni e i significati derivati, prima ancora che dalla memoria culturale della propria esistenza, dalla relazione biologica con un territorio davvero prossimo; non credo che “esistano” borghi, nemmeno i castelli, leggibili solo o innanzitutto entro il perimetro delle proprie mura.
La seconda riflessione vorrebbe porsi una domanda più radicale: abbiamo davvero bisogno di questi luoghi per condurre le nostre vite cosmopolite nel XXI secolo di una sempre più incerta globalizzazione? Quale è il contributo (culturale, sociale ed economico) che il mondo dei borghi esprime (e può esprimere) nei confronti della vita quotidiana delle popolazioni ricche (?) di un occidente che mai come oggi si deve interrogare sulla portata più o meno universale della propria civilizzazione urbana?

Richard Feynman ci ha detto che “quel che non riesco a creare non lo saprò mai capire”. Questa è la domanda che mi interroga quando reagisco un po’ stizzito alle millanterie altisonanti con le quali le Archistar maneggiano il tema per esaltarne o invece deprimerne il valore. O quando invece guardo ammirato l’attività degli amici: quella – per me sempre un po’ misteriosa – di Antonio De Rossi, che di costruire i luoghi si preoccupa, o quella di Giovanni Teneggi, che quei luoghi (o altri) cerca invece di abitare con i suoi artefatti sociali dalla cui piena comprensione talvolta mi allontana una certa dubitante presa distanza dal linguaggio della immaginazione sociologica; orticaria da economista, presumo.
Abitare e costruire mi sembrano i predicati fondamentali per entrare in relazione con questo mondo; predicati che ci chiedono di mettere al lavoro organi sensoriali diversi e di chiamare in causa comportamenti opposti, apparentemente, ma forse convergenti: quello del filosofo del linguaggio che prende in mano sempre la stessa pietra e quello del viaggiatore colto che cerca la scoperta di nuove terre nei nuovi occhi con cui rivolge loro il suo sguardo.
Abitare e costruire i borghi e nei borghi, mettere al lavoro saperi, competenze, abilità che fatichiamo a trovare nel nostro bagaglio culturale e professionale e che ci interrogano a riconsiderare gli stessi paradigmi della nostra (e anche altrui, penso a quella dei giovani e giovanissimi!) formazione.
Se la polemica che l’esito disastroso della politica del MIC e il clamore della polemica scatenata dal pamphlet dei miei amici ci aiuteranno a avviare questa valutazione non sarà stata, comunque, una occasione sprecata. In altri modi la potremmo intendere, tornando per un momento sul piano della etimologia e del lessico come l’occasione per la rinascita di un paganesimo antico! 

di Giampiero Lupatelli (Vicepresidente Caire, Comitato scientifico Symbola)

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