L’essere lungo non è tutto per un fiume, ma aiuta
Oltre la lunghezza va tenuta in considerazione la sua portata la quale non dipende esclusivamente dalla copiosità della sorgente, ma anche dalle dimensioni del bacino idrografico
di Francesco Manfredi Selvaggi
28 novembre 2022
Oltre la lunghezza va tenuta in considerazione la sua portata la quale non dipende esclusivamente dalla copiosità della sorgente, ma anche dalle dimensioni del bacino idrografico. Un’asta fluviale, va detto, non è uguale dall’inizio, dalle scaturigini, alla fine, la foce, cambiando connotati di frequente lungo il suo svolgimento.
La lunghezza non è tutto per un fiume, ma aiuta. Per coloro che abitano sulle sue sponde, in primis i Triventini, avere all’interno del proprio perimetro comunale l’asta fluviale più lunga del Molise, il Trigno, è, di certo, un motivo di orgoglio. Essere, comunque, il corso d’acqua più esteso in longitudine non significa essere, necessariamente, il più importante. Si ritiene per abitudine che il corpo idrico con il più grande sviluppo chilometrico sia quello che abbia una maggiore portata d’acqua e ciò perché, sbagliando, si crede che alla superiore lunghezza si associa una più ampia estensione del bacino imbrifero che alimenta il suo corso.
Tale supposizione è errata poiché la superficie dell’impluvio, essendo quest’ultimo un catino va calcolata in 3 D (D sta per dimensione) e non limitarsi solo a 2, quelle planimetriche. È, cioè, una figura geometrica tridimensionale che è, in quanto tale, descrivibile in termini volumetrici. La determinazione del bacino è presto fatta: la distanza tra le proiezioni al suolo delle linee di crinale delle alture che lo delimitano lateralmente ci da la sezione trasversale del bacino la quale va moltiplicata per l’asse longitudinale del fiume e il risultato è una misura areale, cioè in metri quadri, dalla moltiplicazione dei quali con i metri lineari dell’alzato escono fuori i metri cubi del bacino.
In qualche modo si può definire una misurazione vuoto per pieno. Modellazioni più precise tengono conto dell’inclinazione dei versanti, della permeabilità di terreni, ecc.. Ci si potrebbe arrivare con una dimostrazione matematica e, però, appare intuitivo che sono comparabili fra loro una valle fluviale lunga ma stretta e una corta ma larga. Il quantitativo d’acqua che scorre in alveo è in dipendenza della lunghezza della vallata e della sua larghezza, media, anche se a contare c’è pure, e non da ultimo, la copiosità delle sorgenti.
Il Trigno seppure misuri più del Biferno, non ha l’identica massa idrica che trasporta la corrente nel Biferno; quest’ultimo ha scaturigini abbondanti in diretta connessione con i bacini sotterranei presenti nelle cavità carsiche dell’imponente massiccio del Matese. Ha sempre a che fare con la lunghezza, non si è fuori tema, l’osservazione che proponiamo: qualsiasi asta fluviale nel suo cammino si ingrossa perché, di regola, riceve il contributo di affluenti.
Pure il Biferno come tutti il quale, comunque, si contraddistingue per il seguente aspetto: se nella sua fase giovanile ha un peso predominante, addirittura esclusivo, l’acqua che fuoriesce dalla montagna matesina, caratterizzata, lo si è detto dal fenomeno del carsismo, a circa la metà del suo percorso prende il sopravvento l’apporto idrico che riceve dai tributari, il quale è, sostanzialmente, di origine meteorica il che ne fa un corso d’acqua, da un certo punto in poi, soggetto a magre e piene (la diga del Liscione ha anche una funzione riequilibratrice).
Non vi è, pertanto, omogeneità nel corpo idrico dal principio alla fine; il cambiamento di fisionomia nel suo incedere sarebbe stato inferiore, in conseguenza di un incontro di un numero inferiore di affluenti, se il suo svolgimento dal monte al mare fosse stato inferiore (la ripetizione, del termine, giova). Il Trigno lo si è messo in ballo a proposito della lunghezza per la quale ha il primato e finora non in relazione alla larghezza per la quale occupa, nella sua porzione pianeggiante, il primo posto fra i fiumi nostrani.
Durante il suo discendere dai monti altomolisani ha modo di cambiare sembianze più volte passando per ambienti diversi, molteplicità di mutazioni che sono merito della sua lunghezza. Si trasforma da striscia sottilissima per incunearsi nella gola di Chiauci ad una fiumara, percettivamente parlando, allargandosi dopo la confluenza con il Verrino, raggiunto ormai il piano: non sembra, ancora percettivamente parlando, lo stesso fiume.
Da qui in poi diventa confine regionale. È talmente ampio il suo greto che nei momenti di secca assomiglia ad una landa desertica. La sezione dell’alveo così vasta rende difficile realizzare ponti per attraversarlo. Senza opere di scavalco questo corso d’acqua viene ad essere un deciso elemento di divisione fra i territori alle sue opposte sponde tanto da portare ad individuarlo quale limite della regione. Riassumendo: un fiume assai largo rende arduo gettare ponti che colleghino le due rive e senza ponti le popolazioni rivierasche non possono stabilire rapporti fra loro, partecipare ad un’unica entità territoriale e, di conseguenza, amministrativa.
La larghezza e la lunghezza sono due valori che, all’inverso del peso che hanno nella configurazione di un fiume, preponderante, e di molto, la seconda rispetto alla prima, non c’è alcuna proporzionalità, incidono sull’identità della comunità i cui comprensori bagna. Se l’essere eccessivamente larga fa sentire l’asta fluviale, mica tanto asta dato lo spessore, una barriera, essa tende ad unire i popoli che si affacciano verso di essa nel senso della lunghezza.
Il collante dell’unione è di tipo ideale, l’attaccamento sentimentale al corso d’acqua, rimaniamo al Trigno, che spinge a definirsi trignini gli abitanti tanto di Trivento quanto di Bagnoli, Montefalcone, e così via. In questa speciale sfida ad essere il fiume più lungo della regione sono ammesse tutte le armi: entrambi i corsi d’acqua trattati cercano di allungarsi con il trascinare sulla battigia sedimenti erosi altrove il che fa sì che la foce avanzi recuperando terreno al mare.
Il Biferno avrebbe una carta da giocare in tale singolare competizione che consiste nel cambiare denominazione assumendo quella di Biferno-Callora, il corso d’acqua che ad esso si ricongiunge in prossimità di Boiano dopo aver percorso alcune decine di chilometri in solitaria provenendo da Roccamandolfi. Il Biferno, ad ogni modo, si immagina non avrebbe esitazioni a cambiare il proprio nome, ma neanche, al contrario a conservarlo, abituato com’è al fatto di essere all’origine scomponibile in più rami distinti, Calderari, Pietre Cadute, Riofreddo aggiungendo ora Callora: infatti è un fiume che prende forma da una pluralità di corpi idrici.
Non è una cosa rara, anche il Fortore ha 3 gruppi sorgentizi distribuiti 2 in Campania e 1 in Molise. Non siamo in Pianura Padana, da noi è normale che un fiume più è lungo più si imbatte in unità paesaggistiche differenti. Egli influenza con il suo passaggio alcuni paesaggi, ma ci sono pure quelli sui quali non ha alcuna incidenza metti il Trigno che si nasconde tra i boschi del Molise Altissimo scendendo nel fondovalle (oh!) quasi furtivamente.
di Francesco Manfredi Selvaggi