La “dòdda” e il primo letto
La maschera dei briganti, conosciutissima da tutti i campobassani di una certa età, non lo è per le giovani generazioni
di Pino Catalano (da Letteratura Capracottese)
05 Gennaio 2023
La dote
La dòdda (dote) era il complesso di beni, corredo e soldi, che una figlia doveva portare col matrimonio a suo marito. Mia madre, per esempio, portò una dote cospicua: corredo ricamato e ricco, guardaroba ben fornito, più 8.000 mila lire in denari, essendo lei unica femmina tra quattro maschi. Nel 1926 questa cifra era paragonabile a diversi milioni e voglio credere fermamente che mio padre l’abbia sposata (lei 16 anni, lui 23) per amore e non per interesse. La famiglia di mia madre era benestante e aveva fatto studiare la ragazza fino alla sesta (prima media).
All’epoca non so dire quali fossero le usanze, perché non ero ancora nata, ma per i tempi più vicini a noi (50 anni fa) certamente posso raccontare quello che so, avendolo appreso da esperienze dirette.
La prima pietra della dòdda veniva posta il giorno della prima comunione, quando alla bambina vestita di bianco venivano regalate (con gioia della madre ma non con la sua) alcune scatole contenenti per lo più asciugamani, fazzolettini ricamati, pezze di stoffa da farci le federe, qualche servizio da tavola, un lenzuolo bianco, da ricamare eventualmente poi. La mamma apprezzava molto questi primi rudimenti, ai quali, nel corso degli anni, lei avrebbe aggiunto, un po’ alla volta, il resto che non sarebbe stato poco.
Così, un po’ alla volta, il corredo cresceva e si accumulava nella càscia (cassapanca), con sacrificio per le famiglie meno abbienti, che con parsimonia e decoro provvedevano a tutte le necessità. Non c’erano leggi scritte, ma norme e regole sì, alle quali la famiglia doveva attenersi.
Quando la ragazza si fidanzava, allora si intensificavano le spese, per colmare i vuoti che immancabilmente si erano creati negli anni. La ditta Coltorti, marchigiana, che commerciava in corredi, godeva presso le popolazioni dell’Alto Molise e del Chietino di grande prestigio. Il titolare passava dalle nostre parti due volte l’anno con mercanzie di ogni genere, sempre di prima scelta.
Stava in albergo il tempo necessario, quindi cominciava il giro per le case interessate agli acquisti e, sul campionario, faceva scegliere, consigliava per la qualità e per il prezzo, mostrava, sciorinava, alla fine concludeva la vendita. Il pagamento era a rate non vincolate e comodamente dilazionate nel tempo. Vendeva anche vestaglie, camicie da notte, sottovesti e tutto ciò che poteva rendere leggiadro un corredo da sposa. Una volta io mi innamorai di una camicia da notte tutta sciù-sciù, trasparente come un velo. Mia madre fece opposizione all’acquisto e disse:
– Ma con questa si vede tutto!
E il sig. Coltorti rispose candidamente:
– Signora, non deve vedere lei!
La mamma arrossì e dovette arrendersi, povera donna, alla logica dell’uomo.
Il primo letto
Il lenzuolo più fine doveva essere ricamato, perché veniva messo sul letto nuziale come abbellimento per i visitatori curiosi. Allora pizzi di Cantù, tombolo, merletti, ricami finissimi erano eseguiti dalle maestre: ad Agnone correvano i nomi, tra gli altri, di Ida Rossi, Gina Lemme, le stesse suore dell’asilo; a Capracotta Lidia Sammarone, Giuseppina De Simone, Matilde Di Nucci, Giuliana Di Rienzo e le suore, tra cui la più brava di tutte era suor Concetta, di origine agnonese. Erano nomi mitici, veri geni dell’arte preziosa dell’intarsio e del ricamo. Al primo letto seguiva il secondo, pure lavorato, ma un po’ di meno, poi il terzo e via di seguito gli altri.
Il corredo più modesto partiva da sei capi; poi via via da dodici, da ventiquattro. Questi i numeri che indicavano le paia di lenzuola (matrimoniali e singole) presenti nella dòdda, tutte ben rifinite con punto a giorno lungo la piega e federe a riporto. Quando il corredo era poca cosa, la gente, compresi i parenti dello sposo, diceva con disprezzo:
– Quella si è sposata con una valigia!
All’approssimarsi delle nozze il corredo veniva tirato fuori dai bauli, rinfrescato, stirato da donne esperte, poi esposto nella casa della sposa, perché tutti gli invitati potessero vederlo, apprezzarlo e valutarlo. Quando parlo di apprezzamenti voglio proprio dire ciò che la parola indica: i parenti dello sposo andavano a casa della sposa e davano a tutto il ben di Dio un valore in quantità, qualità, finezza. E sì che le camere utilizzate erano anche tre: nella prima erano esposte lenzuola (le ricamate in prima linea), servizi da tavola da sei e da dodici, con pizzi e ricami, asciugamani pregiati con cifre intrecciate, con scritte come «Lei» e «Lui», di lino o di fiandra, federe con angeli e saluti, come «Buongiorno» o «Buon riposo».
Era, questa stanza, un po’ la vetrina del corredo. Il resto veniva dopo: lenzuola, strofinacci, federe, servizi da tavola giornalieri, coperte (quella di primo letto era di seta, di broccato o fatta a mano con lunghe strisce ricamate o all’uncinetto), imbottite, termocoperte (non quelle elettriche), plaids, copriletti di piquet e poi tutto ciò che può servire in una casa; quindi, alzando gli occhi, si vedevano, appesi tutt’intorno, abiti, cappotti, giacche, vestaglie estive e invernali, camicie da notte, liseuses; in un angolo c’erano scarpe nuove, pantofole, babbucce dai colori tenui con i pompon, calze velate o di lana, mutande (anch’esse cucite a mano), sottovesti e tutto ciò che la vanità femminile esigeva unito alla praticità. A casa della madre della sposa rimanevano panni, pannucci, fasce, camiciole (cacciamanielli) che poi sarebbero state utilizzate al momento della nascita del nipotino.
Molta della biancheria era tessuta a mano da donne solerti ed esperte in quest’arte antichissima che era stata tramandata di generazione in generazione con rito quasi sacro. Il telaio delle tessitrici occupava un posto importante nella casa e lì le donnette trascorrevano il tempo a ordire trame per stoffe più o meno pregiate.
Parlando di queste cose, il pensiero va alla mitica Penelope, la regina di Itaca che aspettò 20 anni il suo sposo, tessendo di giorno e distessendo di notte una tela al termine della quale avrebbe dovuto sposare uno dei pretendenti alla sua persona e al regno. In attesa del suo assenso, questi avevano occupato la reggia e consumavano in pranzi e cene tutte le sostanze. La virtù della donna fu premiata: infine, quasi per miracolo, lo sposo tornò a casa e, per dirla col poeta, «baciò la sua petrosa Itaca Ulisse».
Ma torniamo al corredo; lo abbiamo lasciato ancora in esposizione, con tutte le bellezze messe in mostra, tra cui spiccavano alcuni preziosi come l’anello col brillante, il collier, gli orecchini, la catenina della comare, una boccetta di profumo, un mazzolino di fiori secchi, una foto dei fidanzati incorniciata, un ciondolo d’oro. Più in là un vassoio con i confetti ricci di Carosella o di Orlando, una guantiera di bicchierini, grandi come ditali, dove offrire il rosolio, rigorosamente fatto in casa, liquore dai colori brillanti quali giallo, rosso, verde, paglierino, i cui ingredienti (le essenze) venivano acquistati nel negozio specializzato.
Dopo l’esposizione, il corredo, non senza emozioni e qualche lacrima della mamma, veniva portato nella nuova casa e qui rimesso nei bauli dove sarebbe rimasto per il resto della vita e dove la sposa, poi moglie e madre, avrebbe prelevato ciò che di volta in volta fosse servito per la casa. Quasi a suggello del patto matrimoniale veniva stilata, alla presenza di testimoni dell’una e dell’altra parte, una nota che elencava i singoli capi portati in dote. La carta veniva sistemata, come ricevuta, in fondo al baule.
Il trasporto da una casa all’altra veniva fatto da donne vestite con l’abito migliore per mezzo di canestri portati sulla testa e ricoperti da grossi fazzoletti fiorati di tìbba (pura lana colorata con tinte vegetali) che facevano anche loro parte del corredo.
Come si può notare, il viaggio del corredo era lungo e costoso: a volte anche inutile, se per caso il matrimonio andava a monte o semplicemente la ragazza non si sposava perché “nessuno l’aveva voluta”. Veri capitali rimasti chiusi e inutilizzati per anni e anni nelle soffitte. Poi la curiosità di qualche nipote avrebbe riportato alla luce questi capolavori, ingialliti, ammuffiti, ormai da utilizzare solo in parte, inutili come i sogni delle ragazze per le quali quel corredo era nato.
A completezza dell’informazione va aggiunto che la ricevuta che veniva posta in fondo al baule si chiamava doddàrio; come già detto essa veniva redatta da testimoni dell’una e dell’altra parte, ma a scriverla materialmente era una persona terza che “sapeva di lettere”, cioè era in grado di scrivere con grafia leggibile e chiara. All’elenco dei beni vanno aggiunti i materassi, anch’essi a carico della sposa; dovevano essere quattro e tutti di lana. Ognuno portava con sé la fodera di ricambio.
Come si può vedere il corredo era un vero e proprio salasso. Le famiglie tuttavia si accollavano tutte le spese e a volte dovevano provvedere anche ai mobili della camera da letto. Forse per questo motivo la nascita di una femmina non portava grande gioia nelle case.
A Capracotta, tra gli abiti esposti col corredo, dovevano esserci anche il vestito della suocera e del suocero per le nozze del figlio, la camicia o il foulard per i cognati, tutta roba regalata, l’abito della futura sposa per le prime promesse, più quello da indossare otto giorni dopo le nozze, quando la coppia “riusciva” per andare alla messa cantata.
Forse il ’68 ha portato una ventata di aria fresca e ha fatto rinsavire le menti. Oggi certe consuetudini sopravvivono ancora, in misura ridotta, nei paesi più legati alle tradizioni, ma il grosso di queste inutili pantomime è sparito.
Deo gratias.
di Pino Catalano (da Letteratura Capracottese)