Siti archeologici e paesi abbandonati
I resti archeologici non son che belli e sepolti anche se alla luce
di Francesco Manfredi Selvaggi
14 Aprile 2023
Si tratta del rapporto che abbiamo con le testimonianze dell’antichità che consideriamo lontani non solo nel tempo, ma pure sentimentalmente. Mentre per i villaggi pur se abbandonati sorti nel medioevo sentiamo vicinanza emotiva in quanto luoghi di vita dei nostri progenitori prima che la grande Emigrazione li spingesse ad abbandonare il paese natio, le città sannite, prendi Altilia, non le consideriamo la nostra “patria”.
Partiamo nel parlare dell’abbandono del patrimonio culturale, il quale lo si avverte da subito comprende pure i borghi storici, proprio dall’inizio come si conviene ad una trattazione che sia, per quanto possibile, completa, quindi dall’antichità. Altilia va salvaguardata di certo per il suo eccezionale interesse archeologico, lo si dice nonostante si sia sicuri che nessuno si sogna di abbandonarla, di farla scomparire.
Oltre alla ragione della messa in valore del suo valore artistico c’è un’altra motivazione che deve spingere i molisani alla protezione di questa colonia latina nel Sannio che è di tipo in qualche modo campanilistico ed è che tale città antica rappresenta un segno del nostro glorioso passato, del grado di sviluppo raggiunto in questa regione in età romana. Il culto dei resti di civiltà scomparse è praticato solo in riferimento alle testimonianze monumentali come Saepinum, non è sentito con altrettanta passione verso i villaggi tradizionali allo stato di rudere, il caso emblematico è Rocchetta Alta.
I comuni abbandonati suscitano sentimenti di commozione quasi esclusivamente in chi ha le proprie radici in tale luogo, di frequente in componenti di gruppi famigliari che sono partiti da lì per raggiungere le mete dell’emigrazione. Il fatto che siano rimaste scarse tracce delle dimore dei propri antenati rappresenta per i discendenti emigrati nel Nuovo Mondo un ulteriore fattore di sradicamento. Per Altilia tale problema non si pone ovviamente in quanto i Sanniti che qui vivevano sono scomparsi da circa 2 millenni, nessuno può vantare un albero genealogico plurimillenario.
Altilia gode di una pronta riconoscibilità dell’assetto urbanistico, il che è di forte impatto emotivo tale da consentire di immaginare l’esistenza che vi conducevano i presunti propri cari se non fosse che le gens dopo duemila anni si sono evidentemente estinte con le domus in cui abitavano diventate irrintracciabili, giocoforza, non ci sono eccezioni tipo quella della dinastia dei Massimi a Roma che vanta tra i propri avi Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore; non c’è, in definitiva, oggi chi ritenga Altilia la sua “patria” come avviene invece per gli insediamenti medioevali.
Per definizione è archeologia ciò che è ormai estinto, storia quanto è in connessione con il presente: una cosa morta e una cosa viva. Se vi è stata una continuità essa va cercata nel riutilizzo dei materiali costruttivi, da quelli elementari a quelli decorativi, nelle costruzioni contadine che sono sorte molti secoli dopo in questo sito frazione di Sepino e pure nel capoluogo municipale, i pezzi di maggior pregio come la fontana del dio Oceano che è in bella mostra all’inizio del paese per abbellire l’entrata, una spoliazione, dunque, che non si fa scrupolo di riusare le immagini di idoli pagani.
Ricapitolando, la conservazione delle rovine di strutture architettoniche di età lontana nel tempo, anche semplici frammenti trova giustificazione a volte nella loro intrinseca qualità a volte nell’amor patrio, l’orgoglio per le civilizzazioni che ci hanno preceduto, dalle quali discendiamo, non si prova affetto per i Sanniti se ne è solo fieri, a volte per la nostalgia del tempo che fu, accresciuta dalla lontananza del villaggio della madrepatria il quale rimane nel cuore di chi è stato costretto a lasciarlo per andare a trovare lavoro oltreoceano, a volte non per un singolo motivo, bensì per due o tre insieme di quelli esposti.
Una motivazione ulteriore è legata alle potenzialità paesaggistiche dei lacerti delle opere distrutte, detto diversamente alla loro carica romantica. Affrontiamo il tema partendo dal piccolo per giungere al grande, non senza aver specificato che ci occuperemo dell’inserimento di tali “rimasugli” sia nel paesaggio naturale sia in quello per così dire artificiale cioè nelle aree a Verde una delle Zone urbanistiche da prevedere nei piani regolatori. Iniziamo da questi ultimi prendendo ad esempio Boiano dove nella villetta retrostante il municipio sono collocati alcuni ritrovamenti minuti della Bovianum Vetus, allestimento curato dall’archeologo locale ottocentesco B. Chiovitti secondo il gusto dell’epoca, siamo nel Romanticismo, del “giardino con rovine”; fortuna inferiore ha certo quel capitello che è stato posto rovesciato al centro di una rotonda viaria nel centro, scusate la ripetizione, di piazza Pasquino, quasi fosse uno spartitraffico.
Le esemplificazioni boianesi offerte rientrano pertanto entrambe nella prima tematica, quella del piccolo e del paesaggio artificiale mentre per la seconda, quella del grande e del paesaggio naturale si propone l’abbazia di San Vincenzo al Volturno dove la lunga archeggiatura che è l’unico componente sopravvissuto del portico che accoglieva i pellegrini acquista maggiore bellezza dall’essere inserita in uno scenario visivo stupendo con il fondale dominato dalla catena delle Mainarde. Si condividerà l’osservazione seguente: il piccolo, proprio per le sue dimensioni, risulta scarsamente percepibile in un paesaggio naturale la cui scala è evidentemente macro come al contrario è scontato che il grande, un manufatto grande, è difficile che possa trovare posto in un giardino, il paesaggio artificiale, perché questo è uno spazio di scala normalmente micro.
I reperti minuscoli sono trasportabili per cui è facile spostarli e sistemarli in giardino a differenza dei monconi superstiti di fabbricati antichissimi che rimangono necessariamente, è impossibile trasportarli altrove, in situ, ovverosia nel luogo in cui detti corpi di fabbrica furono edificati. Si ripropone spesso il dilemma di fronte a queste emergenze per così dire mutilate se operare secondo le tecniche del restauro di ripristino che consiste nella ricostruzione delle parti mancanti riportandole ad un presunto stato originario.
Se non vi sono dati certi sulla forma che esse avevano all’origine si procede con il restauro “in stile” prendendo a modello architetture coeve, i loro caratteri stilistici, che il tempo ci ha consegnato integre. L’alternativa è lasciarle dirute limitandosi alla protezione delle strutture dai rischi ambientali capaci di comprometterne la permanenza. Nel caso del monastero di S. Brigida a Civitanova si è optato per la reintegrazione delle porzioni che si erano perse del campanile: il rifacimento dei tratti di muro crollati ne ha fatto perdere il fascino “romantico” che emanava proprio la sua incompiutezza, il decadimento del monumento quale metafora dell’inarrestabile trascorrere degli anni. I resti di un manufatto storico hanno la funzione di memento della caducità delle cose terrene ed è questa una ragione, che si aggiunge alle 4 elencate in precedenza, per rispettare i ruderi. La sesta è più prosaica, l’attrattiva turistica che esercita il “pittoresco”, la campagna con rovine.
(Foto: Il decumano riemerso a Boiano).)
di Francesco Manfredi Selvaggi