L’emigrazione concausa dell’urbanizzazione
Sopravvivono degnamente solo i centri maggiori che anzi si accrescono anche a scapito dei centri minori
di Francesco Manfredi-Selvaggi
12 Giugno 2023
Si traccia una breve storia del fenomeno migratorio della nostra regione la quale ha comportato una sensibile diminuzione di abitanti specie nei centri minori e questi sono legati al settore primario. Sopravvivono degnamente solo i centri maggiori che anzi si accrescono anche a scapito dei primi e questi sono legati al settore terziario. Non c’è un rapporto diretto e però qualche annessione ci deve essere tra emigrazione e urbanizzazione.
Lo spopolamento del Molise ha una storia molto lunga. Comincia con la vittoria dei Romani nelle Guerre Sannitiche che permise, siamo in età Repubblicana, a Silla di celebrare ben 25 Trionfi, in ognuno dei quali dovevano sfilare nell’Urbe ben 5.000 prigionieri. Prosegue in età Imperiale quando il duplice incentivo costituito, da un lato, dal richiamo della capitale dell’Impero e, dall’altro lato, dalle possibilità di guadagno offerte da possedimenti vasti da colonizzare frutto di conquiste provoca una sensibile diminuzione di residenti qui da noi che già allora era giudicata preoccupante se Augusto adottò come argini a tale fenomeno, con apposite leggi, alcune sanzioni contro il trasferimento di persone nella “città eterna” e accrebbe il flusso della spesa pubblica verso questa regione, inserita nella Regio IV dell’Italia dell’epoca.
Sia per rimpolpare quest’ambito territoriale sia per controllarlo meglio furono create colonie di veterani. Con un salto temporale di circa 2.000 anni passiamo alla fase moderna dell’emigrazione; per quanto riguarda i flussi di popolazione in tale lungo arco di tempo si riscontrano solo quelli diretti verso la nostra terra, cioè in entrata, durante le invasioni barbariche, i Bulgari inviati dal duca longobardo di Benevento per ripopolare il territorio tra Boiano e Isernia, e non in uscita. Simbolicamente, o quasi, è la realizzazione della linea ferroviaria a consentire la ripartenza dei movimenti migratori, il nuovo ciclo inizia intorno al 1880.
Durante la cosiddetta era fascista si ha uno stop alle partenze di coloro che avrebbero voluto emigrare e, nel contempo, nell’allora Provincia di Campobasso si registrò un aumento di abitanti. La chiusura delle frontiere impediva, insieme all’ingresso di merci dall’estero per la politica dell’Autarchia, la fuoriuscita di individui in cerca di lavoro altrove. Il regime fascista fu obbligato, al di là della retorica nazionalista, a imboccare alla metà degli anni 30 la strada della colonizzazione in Africa la quale avrebbe messo a disposizione dei contadini meridionali (e veneti) terreni da coltivare.
Nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale si ha una forte recrudescenza della spinta all’emigrazione che il fascismo aveva bloccato offrendo quale valvola di sfogo, invero solamente potenziale, le superfici agrarie nelle terre d’“oltremare”. Il Molise subisce la più consistente diminuzione demografica di tutti i tempi. I molisani nel ventennio intercensuario 1951-1971 scendono da 407.000 unità a 333.000, quindi di circa il 20%, decrescita che come ben sappiamo prosegue ancora oggi, una discesa che sembra non volersi arrestare.
Finora si è trattato dell’emigrazione con il sottinteso che essa fosse un problema da risolvere, ma non sempre e non tutti la hanno considerata così, ovvero quale una cosa negativa completamente. Alcuni degli aspetti legati ad essa sono stati giudicati positivi; ad esempio dallo storico casacalendese Giovan Battista Masciotta che riferendosi alla prima ondata migratoria enumera i vantaggi che si riconducono tutti, in fin dei conti, a quello dell’arrivo di denaro d’oltreoceano. Nell’ultimo dopoguerra De Gasperi si dichiara favorevole all’esodo perché riduce il numero dei disoccupati; in quegli anni, gli anni del “boom economico”, infatti la decisione di puntare sulla crescita di settori produttivi efficienti capaci di esportare i loro beni sul mercato internazionale portò a concentrare gli sforzi sull’industrializzazione la quale aveva ed ha come suo territorio d’elezione le regioni del Nord, sacrificando all’altare del progresso industriale l’agricoltura e quindi il Sud dove rappresentava il segmento dell’economia più rilevante.
Per il Mezzogiorno si scelse di adottare una politica di opere pubbliche, la quale quasi per antonomasia ha una funzione anticongiunturale. Si vennero realizzando importanti infrastrutture tra le quali le strade che, secondo Vera Lutz in un suo articolo sul Mondo Economico del 1960, “servivano ormai agli abitanti del Mezzogiorno soltanto per abbandonare per sempre i paesi d’origine”. Cambiò anche destinazione negli anni 50 la corrente migratoria, in passato avente quale meta le Americhe scegliendo ora il continente europeo.
L’anno di svolta è il 1956 quando gli espatri dall’Italia, in particolare da quella Meridionale verso gi Stati dell’Europa Settentrionale, il contrasto nord-sud, balzarono oltre le 200.000 unità. Dal ’51 al ’61, il decennio in cui si ha l’affermazione dell’industria nel nostro Paese circa 50.000 persone, un numero davvero impressionante, lasciarono il Molise seguiti da altri 20.000 nel decennio successivo diretti parte verso il triangolo industriale del’Italia Settentrionale, parte verso nazioni estere. In maniera indiretta si sono espressi favorevolmente rispetto alla fuoriuscita dal Sud di popolazione, la quale, lo si è detto, era impiegata prevalentemente nel mondo agricolo, anche economisti per così dire progressisti.
Rossi Doria prevedeva, una previsione risultata errata in un suo scritto, giusto nel mezzo del XX secolo, che lo sviluppo dell’ “osso”, cioè delle aree interne del Mezzogiorno contrapposto alla “polpa”, cioè le aree forti, lo si sarebbe raggiunto “qualora la popolazione agricola di queste zone si ridurrà a un terzo di quella attuale”. Al calo demografico non ha fatto seguito quel cambio di passo fatto di profonde trasformazioni nell’organizzazione economica e sociale del mondo rurale auspicata da un’intera generazione di “meridionalisti”.
Anzi un effetto dell’emigrazione, la quale ha portato via le forze giovani, è stato l’invecchiamento degli addetti nell’agricoltura, una senilizzazione delle aziende, un comparto dove, invece, sarebbero dovute sorgere moderne imprese di tipo, a seconda dei teorizzatori, capitalistico o cooperativistico. Vista la crisi del settore primario e il mancato decollo del settore secondario non restava che il settore terziario per trovare una collocazione lavorativa alla gente, cioè l’espansione degli occupati sia nei servizi sia nel commercio sia nella pubblica amministrazione. Tale orientamento nelle strategie occupazionali ha portato ad un accrescimento della città di Campobasso e si sottolinea città perché è nelle entità urbane maggiori che si insediano le attività commerciali e le attività di servizio. Campobasso che è capoluogo di regione, quest’ultima appena istituita, si riempie pure di uffici amministrativi. L’urbanizzazione è, pertanto, in qualche modo connessa all’emigrazione, ma questo è un altro capitolo.
di Francesco Manfredi-Selvaggi