I sogni che non fanno svegliare
Alterità, accoglienza e autodeterminazione
di Barbara Borgi (da nautilusrivista.it)
24 ottobre 2023
Nella mia mente esiste una comunità immaginata abitata da chi, come me, è stato svezzato a pane e De Andrè. Con la stessa pretesa demiurgica, coloro che vi appartengono sapranno certamente – anzi, imprescindibilmente – riconoscersi in un esercizio di ascolto ciclico e paziente dei testi, una sorta di solenne rito indagatore (primo sul podio Storia di un impiegato, 1973).
La ritualità si ripete a cadenza annuale, quinquennale, decennale e ha delle precise caratteristiche: dal tentativo acerbo di risolverne l’enigmatica complessità, passando per la convinzione puberale di identificarsi finalmente in quella data storia, in quel preciso excursus ideologico, sino ad arrendersi alla meravigliosa consapevolezza dell’inevitabile risemantizzazione che continuerà a darsi a ogni ascolto, a ogni cambio di stagione.
Questa meticolosa metodologia introspettiva, indissolubilmente unita ai temi presenti nell’antologia del cantautore, caratterizza da un paio di decenni il mio andirivieni tra volontariato, associazionismo, attivismo, militanza e, infine, consacrazione nella società borghese in qualità di operatrice legale per l’immigrazione. E le domande di autovalutazione, tra tante, che insistono ciclicamente nel mio percorso sono le seguenti: quali sono i sogni che non fanno svegliare? E qual è il mio risveglio dai sogni a occhi aperti? Quale, cioè, il contributo reale contro le logiche di potere meramente numeriche, la marginalizzazione degli ultimi, le discriminazioni strutturali?
Superare il piano dell’utopia, in realtà, non richiede un grande sforzo formale quando si opera in ambito socio-politico con un approccio orizzontale, su nodi territoriali specifici (vie, quartieri, distretti). Realtà collettive e associative praticano quotidianamente una dimensione altra sui territori, capace di contrastare l’eterodirezione e gli standard mercantilistici che regolano ormai anche i servizi essenziali. Al contrario, mi capita spesso di osservare come la percezione aleatoria, ideologico-assembleare e meramente oppositiva che circonda le realtà autogestite tenda a oscurarne il livello operativo contestuale.
Scuole d’italiano per stranieri, percorsi di formazione/cittadinanza attiva/inserimento lavorativo, processi di recupero e riqualificazione di spazi pubblici, sportelli know-your-rights/di assistenza sanitaria e legale, palestre popolari, doposcuola per l’infanzia, laboratori artistici/letterari di ridefinizione urbana, biblioteche sociali: solo alcuni esempi dei progetti locali di autodeterminazione che ho avuto la fortuna di agire e attraversare, ben oltre l’utopia (tralasciando in questa sede il piano delle vertenze e l’integrazione transnazionale delle lotte politiche).
Attivare presidi sociali, spazi municipali e mutualistici dove sia possibile ricomporre le differenze, accogliere i soggetti marginalizzati, agire degnamente i diritti fondamentali, significa fare quotidianamente i conti con le strutture normative, civili e politiche di una società, pur muovendosi in un ambito non istituzionale e/o indipendente.
Significa, altresì, rispondere a questioni endemiche, così come rinegoziare la propria identità in relazione alle istanze, alle dinamiche di compressione/decompressione dei diritti stessi. Perché se è vero che stiamo assistendo a una trasformazione dell’egemonia culturale in questo paese, è altrettanto evidente non si tratti di una cesura, quanto piuttosto dell’emersione di percorsi – più o meno – carsici.
La strumentalizzazione dei fenomeni migratori e l’individuazione classificatoria dei progetti migratori degni di tutela o criminalizzazione descrivono i proselitismi entro agende politiche di ogni colore, riversati a cascata intermittente nella decretazione in materia di accoglienza.
Citando solo l’intervento più recente, risale a qualche mese fa (Decreto-legge 10 marzo 2023, n. 20, convertito con modifiche nella legge di conversione 5 maggio 2023, n. 50, recante: «Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare.») l’introduzione di rilevanti modifiche in ambito migratorio, tra cui all’art. 19 (Divieti di espulsione e di respingimento) del Testo unico sull’immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), che vanno a contrarre – nuovamente – i casi di divieto di espulsione e respingimento dello straniero, determinando come conseguenza operativa la riduzione delle possibilità di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale, ipotesi terza e residuale di autorizzazione a soggiornare sul territorio ¬– rispetto al riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra e della protezione sussidiaria, disciplinata dall’art. 2, lett. g), d.lgs. n. 251 del 2007.
Il motivo per cui rilevo questo intervento tra gli altri, è per la specificità della previsione modificata nel sopraccitato art.19 TUI. Fermi restando, chiaramente, i rischi di persecuzione, tortura, trattamenti inumani e degradanti nel caso di rientro nel paese d’origine, prima dell’eliminazione al comma 1.1 del terzo e quarto periodo, il divieto di espulsione e respingimento si estendeva all’ipotesi in cui l’allontanamento dal territorio nazionale comportasse una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare: effettivo inserimento sociale, vincoli familiari del richiedente e durata del suo soggiorno sul territorio italiano sono requisiti ora soppressi per la valutazione del rilascio della protezione speciale da parte della Commissione territoriale.
Lasciando la valutazione complessiva alla prassi che verrà a consolidarsi nelle opportune sedi (giurisdizionale in special modo), non è difficile cogliere la connotazione squisitamente politica di quanto appena detto. In tal senso, aggiungo che lo stesso intervento legislativo prevede la riduzione dei servizi da garantire nei centri governativi di accoglienza e nei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), escludendo l’assistenza psicologica,la somministrazione di corsi di lingua italiana e i servizi di orientamento legale e al territorio (credo sia interessante, intanto, rilevare l’immagine antitetica tra quest’ultimo aspetto e le progettualità locali di cui sopra).
Non solo uno status giuridico tutelante, dunque, ma anche l’accesso agli strumenti per autodeterminarsi, la ricerca di una vita piena e dignitosa, il radicamento faticosamente costruito sono subordinati al tipo di migrante che ti è capitato di essere (al paese dove ti è capitato di nascere, per la precisione). Approccio che si inserisce in sostanziale linea di continuità rispetto al passato: alla base, la criminalizzazione del migrante irregolare, ancor di più se “semplice” migrante economico, che si configura in interventi normativi frammentari ed emergenziali – tra soppressione, ripristino e rimodulazione delle modalità di erogazione dell’accoglienza e degli istituti di tutela – nelle strutture di detenzione amministrativa che cambiano nome e conservano la ferocia, nella demonizzazione delle Ong.
In questa cornice, non faccio fatica a intersecare le logiche discriminatorie dei migranti di serie A e serie B con quelle dei cittadini di serie A e serie B, classificati per estrazione sociale, reddito, etnia, identità di genere, orientamento sessuale.
Lungi dall’appiattire l’analisi che ciascun contesto peculiare merita, le soggettività accomunate da una condizione di subalternità e invisibilizzazione continuano a ricevere risposte, margini d’azione e standard normativi dagli stessi attori che hanno pieno interesse nella conservazione e riproduzione di determinati codici di dominio. Proprio per questo, non identifico i sogni che non fanno svegliare con l’utopia del cambiamento, quanto piuttosto con l’aspettativa che possa configurarsi come una gentile concessione dall’alto e che il processo sia svincolato dallo scardinamento delle patologie sistemiche che interessano le strutture socio-culturali. Immaginate delle politiche antidegrado che intervengano attraverso piani securitari e ghetti urbani anziché attraverso l’integrazione lavorativa e percorsi di autonomia abitativa; oppure, immaginare il contrasto alla criminalità minorile attraverso l’inasprimento delle pene, senza agire su processi formativi; o, infine, affrontare la violenza di genere suggerendo contegno morale e abbigliamento consono alle vittime piuttosto che condannare i carnefici e contemplare l’esigenza di decostruzione del sistema patriarcale. Che mondo sarebbe?
E se da professionista non posso fare altro che operare entro le griglie giuridiche che ho a disposizione qui e ora, auspicando in una riforma organica e coraggiosa in ambito migratorio, da essere umano pretendo molto di più, come contare sulla possibilità che ciò avvenga grazie alle reti di giuriste/i, ricercatrici/ori, operatrici/ori e attiviste/i che si stanno consolidando su scala transnazionale intorno alla difesa dei diritti migratori; come conoscere uno sportello legale/scuola d’italiano di quartiere, autorganizzati, gratuiti e inclusivi dove indirizzate i richiedenti asilo qualora nella mia città l’accoglienza istituzionale non dovesse più somministrare assistenza legale/corsi di lingua.
In tal senso, la tutela delle esperienze collettive, degli spazi condivisi e dei servizi organizzati dal basso, è preziosissima e si dispiega su più fronti. Non sono rari i contesti in cui tali realtà sono completamente ignorate o sminuite. Anche laddove ne sia riconosciuto il ruolo cruciale e a volte complementare/sostitutivo dalle istituzioni stesse nell’organizzazione di presidi sociali, a prevalere, non di rado, è l’ostracismo su base politica. D’altra parte l’istituzionalizzazione di queste pratiche rischia di fagocitarne i margini di autonomia e incastonarle in un’ottica efficientistica e quantitativa. Parlare di valorizzazione in questi ambiti significa, piuttosto, amplificare la diffusione delle esperienze, anche minute, evidenziandone la percorribilità fattuale – mai come modelli quanto come modi altri –, facilitarne la messa in rete e la convergenza, sponsorizzare l’attivazione di spazi intra-territoriali di condivisione, formazione e confronto metodologico, infine, normalizzarne l’accesso ai tavoli negoziali territoriali.
di Barbara Borgi (da nautilusrivista.it)