• 9 Novembre 2023

Premierato

Un attacco autarchico alla Costituzione

di Umberto Berardo

9 novembre 2023

Back

C’è chi prova a nascondere le difficoltà del governo Meloni e tuttavia esse rimangono lì, davvero pesanti, all’attenzione di un’opinione pubblica sempre più preoccupata del nuovo tentativo secessionista nascosto sotto l’autonomia differenziata, della stretta sulle pensioni con i tagli sulle indicizzazioni, del giro di vite nel calcolo delle pensioni ai dipendenti pubblici che sta facendo infuriare i tanti cittadini interessati, dell’aumento delle tasse in molti settori, delle fughe in avanti con l’idea del ponte sullo stretto di Messina in uno Stato fortemente indebitato nel quale lo sviluppo economico nel terzo trimestre del 2023 è rimasto completamente fermo.
Sappiamo tutti che sulla stessa manovra economica per il prossimo anno non ci sono solo le critiche dell’opposizione parlamentare, ma forti malumori all’interno della maggioranza.
Per molti sarà davvero difficile dimenticare l’astensione dell’Italia nell’assemblea delle Nazioni Unite sulla richiesta della Giordania di un cessate il fuoco nel conflitto Israelo-Palestinese.
La mancanza di filtri nelle comunicazioni verso il Presidente del Consiglio avutasi con la telefonata fake di due comici russi ha ultimamente creato imbarazzi notevoli nel governo.
 Arriva ora da parte della Meloni, anche per evitare emendamenti sulla Legge di Bilancio da parte di forze politiche della stessa maggioranza, un’idea di distrazione di massa che poggia su un nuovo tentativo di riforma costituzionale che segue le ipotesi a suo tempo naufragate di Massimo D’Alema nel 1997, di Silvio Berlusconi nel 2006 e di Matteo Renzi nel 2020.
Nella conferenza stampa di venerdì 7 novembre Meloni l’ha definita platealmente “la madre di tutte le riforme”.
In realtà appare come un tentativo autocratico, improvvisato e perfino sgangherato mancando palesemente di ogni coerenza tecnica e sistemica.
Nel programma elettorale il centrodestra aveva previsto per la verità l’elezione diretta del presidente della Repubblica; ora propone quella del premier con un progetto di legge in cinque articoli firmato dalla ministra Elisabetta Casellati, ma ispirato, come taluni ipotizzano, da Francesco Saverio Marini, professore di istituzioni di diritto pubblico.
La riforma modificherebbe alcuni articoli della Costituzione e in particolare il numero 88 sul potere del capo dello Stato di sciogliere le Camere, il 92 sulla nomina del Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, dei ministri e il 94 sulla mozione di fiducia e sfiducia al governo. 
In breve il capo del governo sarebbe eletto direttamente dai cittadini con un mandato di cinque anni e con una sola scheda indicante il nome del candidato e le liste a suo sostegno.
Quale logica vi sia poi nel condizionare il premier eletto a un voto di fiducia del Parlamento davvero non è dato comprendere come giustamente sottolinea il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick sostenendo che “una volta che si è scelta l’elezione popolare, non si può condizionarla con la fiducia parlamentare” con il rischio di tradire l’indicazione degli elettori.
Il testo, varato venerdì scorso dal Consiglio dei Ministri, ha eliminato la norma inizialmente annunciata sul turno unico per l’elezione del premier rinviando ogni decisione al sistema elettorale maggioritario che prevede un premio di maggioranza che assicurerebbe il 55% dei seggi al candidato vincitore e alle liste collegate a prescindere dalla soglia del numero dei votanti.
Tra l’altro non è ancora chiaro come avvenga l’attribuzione del 55% dei seggi ai candidati e alle liste collegate all’aspirante premier col rischio di attribuire deputati o senatori anche a piccole formazioni con uno scarsissimo numero di consensi.
Oltretutto il premio del 55% rischia di essere dato a un esecutivo sostenuto da quanti in parlamento rappresentano la maggioranza dei votanti ma non del Paese; dunque ci sarebbe la necessità di stabilire un quorum o quantomeno un meccanismo di ballottaggio.
I poteri del Presidente della Repubblica sarebbero ridotti a conferire l’incarico al premier eletto, alla nomina dei ministri indicati dal capo del governo, all’assegnazione una sola volta nel corso della stessa legislatura di nuovo incarico al premier eletto o ad altro parlamentare della sua coalizione in caso di dimissioni, di decadenza o di una crisi di governo.
Si eliminerebbe la nomina dei senatori a vita per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario lasciandola solo per gli ex Presidenti della Repubblica.
Intanto è assolutamente inopportuna una riforma che nasce dal potere esecutivo e non dal Parlamento.
Sarebbe utile poi riflettere sul fatto che l’unico Paese al mondo che ha avuto una forma di premierato con elezione diretta è stato Israele, ma dopo nove anni l’ha dovuta abolire in quanto non garantiva la stabilità di governo auspicata.
Questa ricercata legittimazione plebiscitaria di un premier di cui tra l’altro non si definisce con chiarezza il rapporto con il Parlamento rischia di creare conflitti seri tra potere legislativo ed esecutivo soprattutto nell’ipotesi di un allargamento di uso dell’attuale già esagerata decretazione di urgenza.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014 ha già messo in guardia sulla possibile incostituzionalità di un premio di maggioranza non relazionato a una ragionevole soglia minima di voti ottenuti.
Considerata la scarsissima affluenza nelle ultime tornate elettorali, è evidente che il processo democratico sarebbe minato alla base nel principio di rappresentanza e di uguaglianza del diritto di voto.
Legare poi con un’unica lista l’elezione del Parlamento a quello del premier significa rendere il primo ostaggio del secondo in caso di crisi di governo cancellando la forma parlamentare della nostra democrazia.
La figura del Presidente della Repubblica sarebbe assolutamente ridimensionata riducendo il suo ruolo a quello di notaio di decisioni altrui e non più, come oggi, alla funzione di arbitro e coordinatore dell’attività politica senza la quale si rischierà di andare più volte alle urne nonostante la tanto decantata continuità di governo.
Assolutamente ambigua ancora la norma antiribaltone che consentirebbe, anche se solo per una volta, la nomina di un altro esponente della maggioranza magari sostenuto con voti di parte della minoranza.
Siamo al tentativo di blindare la casta degli “eletti” e si svela la contraddizione di una riforma che dice di voler dare il potere di elezione del premier ai cittadini e poi in palese incoerenza lo nega in caso di crisi di governo!
La norma antiribaltone salta chiaramente se il vincolo per un secondo mandato ad altro parlamentare non è la stessa maggioranza con cui è stato eletto il premier, ma solo la realizzazione del programma da essa definito in campagna elettorale.
Sicuramente il disegno di legge avrà bisogno di un referendum confermativo dopo l’eventuale approvazione con maggioranza qualificata dei due rami del Parlamento essendosi dichiarati contrari Il Partito Democratico, il Movimento Cinque Stelle, Verdi-Sinistra e Azione.
Italia Viva continua a tenere posizioni di assoluta incertezza ed equivocità come ormai sta facendo da anni.
Credo che, escludendo l’unica proposta condivisibile all’orizzonte che è quella dell’eliminazione della figura dei senatori a vita per merito o per altre ragioni, il resto della riforma costituzionale, oltre ad avere i tanti punti oscuri sopra esaminati, sia davvero pericolosa perché riduce il Parlamento a un orpello, svuota le funzioni del Capo dello Stato di fronte a un premier eletto da milioni di cittadini  e quindi porta a una pericolosa involuzione il nostro sistema democratico che già presenta problemi enormi.
I padri costituenti con la divisione dei poteri hanno cercato di evitare che le decisioni fossero concentrate in un’unica figura come ora si vorrebbe fare con questo disegno di legge che fa saltare gli equilibri istituzionali e tra l’altro non prevede alcun limite dei mandati per il premier eletto.
Di fronte a una riforma così confusa e pasticciata posta in essere dal governo Meloni non c’è dalle altre forze politiche l’annuncio di un progetto alternativo capace di tenere il confronto se escludiamo la proposta di Stefano Ceccanti che pensa a un premier non eletto, ma con più poteri come quello di sciogliere le camere e di sostituire i ministri.
Si naviga in ogni caso verso idee autarchiche raggiunte con leggi elettorali maggioritarie e premi di maggioranza antidemocratici che in realtà non danno più prevalenza al Parlamento ma al potere esecutivo snaturando quindi il fondamento della Costituzione.
Con la proposta del governo Meloni non solo salta la divisione dei poteri dello Stato, ma si depotenzia il ruolo del Presidente della Repubblica di fronte a un premier eletto dal popolo.
Trovare le strade per dare continuità all’azione di un governo non può e non deve significare ridurre una reale rappresentanza per i cittadini attraverso una legge elettorale che non la garantisce pienamente e rischia addirittura di annullarla.
Il presidente Mattarella, pure inopportunamente tirato in ballo dalla Meloni, è al riguardo chiuso in un silenzio completo.
Abbiamo in ogni caso la necessità di comprendere che la definizione degli assetti di uno Stato democratico va affidata a notazioni razionali e ponderate, al discernimento e al confronto democratico di base nell’opinione pubblica e nel Parlamento prima ancora di portare un progetto di legge così ambiguo e indeterminato all’approvazione delle Camere.
Non so se i sondaggi già lanciati, che darebbero gli italiani favorevoli al premierato intorno al 30%, abbiano richiesto preventivamente almeno la lettura del disegno di legge agli intervistati.
Di fronte ai tentativi di attacco alla Costituzione gli italiani in passato si sono mobilitati per difenderne l’assetto democratico.
Dovremo farlo anche questa volta non tanto o solo con le manifestazioni di piazza, ma soprattutto con la riflessione e l’elaborazione di idee capaci di rafforzare una democrazia agonizzante nell’astensionismo grazie soprattutto alle pessime leggi elettorali concepite unicamente per interessi di parte.
Questo è indispensabile per evitare, come recita il proverbio, che “la fretta faccia i figli ciechi”.

di Umberto Berardo

Back