I Carrettieri di Perano
I ricordi di chi portava al paese i prodotti agricoli delle loro ricche contrade
di Maria Delli Quadri
14 giugno 2016
C’è un flashback che ricorre spesso nella mia mente, quando scendo sotto casa a fare la spesa e trovo l’uva del Sud Africa o del Cile anche a gennaio: è domenica mattina, nel dormiveglia, mi pare di sentire, molto presto, proveniente dalla strada, un rumore di ruote di carri che strisciano e cigolano sul fondo sconnesso del corso: cosa sarà mai? Ma certo, sono i carrettieri di Perano che portano al paese i prodotti agricoli delle loro ricche contrade. Vanno a “ru burg” (la piazza del mercato) a prendersi ciascuno lo spazio loro assegnato ed iniziare così la giornata.
Questo ricordo risale agli anni del dopoguerra quando i carrettieri partivano nella notte con i carri stracolmi di cose buone da vendere agli abitanti di Agnone e dintorni.
Perano è un paesino dell’Abruzzo, a pochi chilometri da Bomba, dove si produce molta frutta di primissima qualità. Nel passato, i rapporti tra questa zona del chietino e l’Alto Molise erano molto intensi, con scambi reciproci di prodotti dell’una e dell’altra parte. In particolare noi agnonesi ci rifornivamo di frutta, pomodori, peperoni e altre derrate che mancavano nei nostri campi dove pure le donne andavano e raccoglievano ciò che potevano.
Una cosa era certa: non mangiavamo mai prodotti esotici come kiwi o ananas, ma solo frutti della nostra terra. Le fragole e i lamponi si trovavano nei boschi ed era un piacere coglierli e mangiarli. Non c’erano i cestini di plastica con quei “palloncini” rossi belli a vedersi, ma senza sapore. Il medico, dottore Luigi D’Onofrio, sosteneva (a ragione) che se questo tipo di frutta fosse stato a noi necessario, il Padreterno l’avrebbe fatto crescere anche nelle nostre contrade, spontaneamente.
Nella mia infanzia c’era un tempo per ogni tipo di frutta: le ciliege di Sant’Onofrio, i fichi (fioroni, in dialetto “r ficaccian”) della Madonna del Carmine; le “percoche” e “prezzichelle” tra agosto e settembre, l’uva al tempo della vendemmia la cui parte più sana, appesa alle canne e leggermente appassita, durava fino alla vigilia di Natale quando veniva mangiata col pane. Anche le pere avevano le loro stagioni: si cominciava con “le pere San Giuann” tra giugno e luglio, quindi le “pere a un mucceco” perché le si poteva mangiare con un solo boccone; quindi era il turno della “pere zuccarine” e delle “pere spina” in agosto; in autunno, infine, si trovavano le “pere n’dorse”, varietà ormai del tutto introvabile, detta cosi perché impossibile da ingoiare senza che si fermasse in gola. E poi, le mele “ustinelle” (agostane), i gelsi (ziaveze), le more (m’ricula) settembrine, le sorbe a novembre. La frutta era stagionale, ma ne avevi quante ne volevi! La mettevamo nei vecchi cestini dell’asilo e ci facevamo merenda.
La provvista per l’inverno era fatta da “mele annurche” e “mele limoncelle” che dovevano essere “spase” sulla paglia, al buio, in soffitta. Col tempo, si raggrinzivano come il volto di una vecchia signora, ma profumavano sempre per tutte le scale fin sopra alla soffitta all’ultimo piano della nostra casa. Qui, a turno, noi figli andavamo, non senza qualche paura del buio, a riempire il paniere, dopo aver dato una sbirciata alle mele marce che inevitabilmente si trovavano sparse tra le altre.
E Perano che c’entra con tutto questo ben di Dio? C’entra perché la domenica mattina, presto, molto presto, i carri in carovana sfilavano, come già detto all’inizio, per la strada, con un fracasso assordante, diretti verso il mercato, dove la merce (che noi non producevamo se non in modica quantità), fresca e profumata, veniva esposta sui banchi e nelle cassette. Era tutto un fervore di acquisti: pomodori per la salsa, cassette di verdure particolari, cocomeri, peperoni rossi, fichi grandi e dolcissimi che la gente comprava e portava a casa; “percoche” giallo/ rosate, “persiche” bianche, succose e dolci, oltre ai “diavrilli” infilati a mo’ di collana.
Quasi sempre, accanto agli uomini di Perano, c’erano le donne di Poggio Sannita, vestite di nero, con grossi fazzoletti in testa che, nelle ceste foderate con foglie larghe di colore verde scuro, vendevano i fichi, bianchi o neri, sventolandovi sopra uno straccio per impedire alle mosche affamate di aggredire il prezioso frutto. I fichi oggi sono una rarità e costano molto, ma io me li ricordo come companatico costante del pane, spiaccicati su una fetta o una crosta. Una bontà! Qualcuno di noi ragazzi chiese una volta: “Chissà che cosa mangia il papa?” Io risposi pronta: “O pane, uoglie ( olio) e zuccare (zucchero) o pane e fiquera ( fichi)”. Anche le albicocche (crsomera), erano una loro specialità: gialle e dorate, profumate e succose, avevano al loro interno una mandorla dolce che usavamo per fare l’orzata negli assolati pomeriggi estivi.
Una piccola schiera di queste donne, più dimessa, sostava nei pressi della mia casa con i cesti semi vuoti, vendendo la merce a prezzi stracciati insieme a qualche ovetto fresco. Sospetto che mio padre comprasse sempre tutto per pietà verso le poverine che, con poche lire, tornavano a casa con almeno un minimo per campare.
Alle due del pomeriggio tutto era finito e i carri ripassavano vuoti in processione, con la bilancia appesa di lato che, sbatacchiando contro le “stanghe” produceva un suono quasi affaticato e stanco. Il passo era lento. Ci voleva tempo per tornare a casa così come ce n’era voluto la mattina per arrivare. Il rumore delle ruote sulla strada, delle voci smorzate, del ritmo dei passi cadenzati mi procuravano, al mattino, grande letizia; al pomeriggio, quando andavano via, quasi un senso di abbandono.Mi consolavo pensando tra me che mio padre aveva comprato qualcosina delle prelibatezze di Perano da mettere poi sulla tavola. Era una festa vera, una giornata diversa dalle altre, con movimento di persone e animali che rendeva allegra e gioiosa la domenica, quasi quanto una gita fuori porta. La frutta comprata era buona e mio padre non la faceva mai mancare. La nostra colazione era a base di pane e fichi, quando c’erano, pane e mele, pane e uva. La prelibatezza era pane, un filo d’olio e pomodoro; la sera un pomodorino, un filo d’olio e un pezzetto di frittata, se in casa c’erano le uova.
I viaggi dei peranesi erano limitati alle stagioni intermedie e cominciavano con le prime fiere. Essi cessarono del tutto con l’avvento dell’automobile e con la nascita dei negozi al minuto. Non so ad Agnone ma a Capracotta arriva ancora d’estate l’uomo di Perano: 5 euro, 3 kg di percoche. Fino a qualche anno fa arrivava ancora “Mingantonio” col tre ruote da Villa Canale, con le “pere zuccarine”, le “pere spine” e le “vranglò” (“reine Claude”, regina Claudia, retaggio francese).
Oggi le fruttiere a tavola son piene di mele giganti della Val di Non, di pere cosce, di kiwi, di banane; quando è tempo, di clementine e di arance, senza semi per carità, frutta che dopo pochi giorni va a male.
Per tornare ai carrettieri di Perano, il titolo scelto per questo racconto è l’emblema di un costume che è durato per molto tempo, fino agli ’70 del secolo scorso. Costume che ho voluto dipingere perché simbolo di un’epoca ormai tramontata del tutto; oggi i negozi di frutta sono scintillanti, hanno le insegne luminose e nomi accattivanti: “L’angolo delle primizie”, “L’oasi della frutta”, “L’oro della terra”.
Il luogo del rifornimento è, per le nostre zone, sempre Perano e paesi vicini (Piane d’Archi, Piazzano), ma la produzione ormai è omologata anche qui.
Talvolta capita ancora di trovare frutta nostrana sulle bancarelle di qualche contadino, ma le signore che fanno la spesa la guardano con sospetto se non addirittura con disprezzo e passano oltre perché i loro figli non la mangerebbero mai e poi mai, così brutta, macchiata e bitorzoluta com’è. Le più consapevoli acquistano quella “biologica”, illudendosi che lo sia, e pagandola un occhio della testa.
di Maria Delli Quadri (Molisana di Agnone (IS), già Prof.ssa di Lettere oggi in pensione. Ama la musica, la lettura e l’espressione scritta dei suoi sentimenti) – da altosannio.it