Intervista a Stefano Sabelli: l’arte per vincere contro ogni limite
Ha debuttato in prima nazionale il 29 giugno 2016 (con replica il 30 giugno), in occasione della trentottesima edizione di Asti Teatro, il capolavoro goldoniano LA LOCANDIERA O L’ARTE PER VINCERE nella nuova edizione prodotta dalla Compagnia del LOTO di TEATRIMOLISANI presso il Teatro Giraudi di Asti.
da moliseweb.it
05 luglio 2016
È stata la talentuosa Silvia Gallerano a indossare gli abiti in stile anni ’50 di una Mirandolina che tenta a tutti i costi di intraprendere la via dell’emancipazione. Con lei un asciutto e caustico Claudio Botosso nel ruolo del Cavaliere di Ripafratta e molti altri quali Dario Florio, Eva Sabelli, Giorgio Careccia, Chiara Cavalieri e Andrea Ortis.
La vicenda si svolge nel Delta del Po, in un’atmosfera acquitrinosa e a tratti onirica. Ce ne parla meglio l’eclettico Stefano Sabelli, regista di questa commedia.
Sabelli ha creato un riadattamento dello spettacolo di Goldoni, mantenendo fede al titolo originale aggiungendo però un sottotitolo: l’Arte per vincere. Che cosa significa esattamente?
Anzitutto da un lato si tratta di una battuta del monologo pronunciata da Mirandolina – protagonista della commedia – decisa ad andare a sedurre per la prima volta il Cavaliere di Ripafratta, famoso per la sua accesa misoginia, dunque, in questo senso, altro non si intende se non la vittoria del gioco di seduzione e dell’arte femminile; e dall’altro lato questo sottotitolo mi piaceva perché, secondo me, in Italia è rimasta unicamente l’arte come mezzo per vincere qualcosa!
“Visto che gli altri sono sordi mi fingo sordo per mantenere il teatro”, una frase che lei ha riportato in una precedente intervista a proposito di uno spot di cui era protagonista e che appunto si lega un po’ con il discorso precedente. Dunque è davvero attendibile?
(Ride) Sì, sì è verissimo! L’intervistatore mi aveva chiesto come mai avessi scelto di fare pubblicità e io gli ho spiegato che è uno dei tanti mezzi che mi permettono di fare teatro. Quel “gli altri sono sordi” era chiaramente riferito agli enti pubblici nello specifico e anche ai nostri enti pubblici molisani visto che la compagnia comunque è residente in Molise. Intendevo dire che ormai l’unico modo per fare teatro e soprattutto per mantenere il teatro è anche questo. Io appunto ho mantenuto il teatro facendo la televisione, il cinema e la pubblicità. Non avrei potuto fare il contrario altrimenti, detto molto francamente.
Come al solito la scelta delle sue scenografie non è casuale, al contrario è parecchio significativa e simbolica: ricordo infatti l’utilizzo di una gabbia carceraria nello spettacolo Autodafè del caminante; in questo riadattamento goldoniano si utilizza invece una locanda-palafitta su di un girevole che si muta ora in una nave corsara ora in una casa di frontiera. Perché questa scelta?
Sì, nell’ Autodafè il pubblico si siede in questa gabbia carceraria svolgendo non solo il ruolo di spettatore ma anche di corte giudiziaria; è sicuramente un’esperienza particolare, quest’anno tra l’altro lo riprenderemo proprio a Torino. Generalmente a livello concettuale posso sostenere che non mi piace lavorare esclusivamente sulla quarta parete, oltretutto in un’idea di teatro contemporaneo diventa riduttivo pensarla in questo modo. Il teatro nei secoli è sempre stato l’arte che ha condiviso e assorbito tutte le arti possibili. Oggi, per esempio, fare teatro senza pensare che esista il cinema, il linguaggio multimediale, senza tener conto delle nuove sonorità che si stanno affermando è impossibile nonché ridicolo; è pleonastico rimanere legati a un concetto dell’ottocento! Ora, questo spettacolo, è molto più tradizionale di quel che può sembrare: noi usiamo un meccanismo girevole che ci permette di creare contemporaneità fra delle azioni teatrali, rispettando comunque le indicazioni presenti nel testo goldoniano. L’unica variante che abbiamo realmente apportato, è un esterno (assente in Goldoni) e un interno, al fine di cercare di mantenere l’azione sempre viva; sapere infatti che l’azione è contemporanea e che perciò un fatto succede subito dopo l’altro in qualche modo ti tiene sul pezzo e mantiene viva la tensione…
Come mai hai scelto proprio Silvia Gallerano per il ruolo di Mirandolina?
Perché sono rimasto folgorato da La Merda! È stato sicuramente uno spettacolo che mi ha colpito! È forse dal punto di vista interpretativo, uno dei più importanti degli ultimi dieci anni in Italia, non è un caso che abbia ricevuto parecchi premi a livello internazionale! Mi è piaciuta la sua la fragilità, la sua comicità che sapeva far anche commuovere; sotto certi versi mi ha ricordato un po’ Franca Valeri.
Silvia, ti sei chiesta come poteva essere Mirandolina negli anni ’50, rispetto alla Mirandolina settecentesca goldoniana?
Sicuramente la suggestione che avevamo sia io sia Stefano era quella di capire come non far diventare questo testo soltanto un testo di maniera, cercare quindi di tirar fuori una verità: quello che è venuto fuori è la totale verità di Mirandolina, in tutto quello che dice , da quando è maliziosa a quando è innamorata… perciò se dovessimo avvicinarla all’oggi o comunque al secolo passato diciamo che rappresenterebbe un personaggio dalle più svariate sfacettature. Silvia [interviene Sabelli] ha molte verità ma tutte estremamente credibili, una contraria all’altra, non va per schemi, ed è proprio lì che risiede la sua modernità.
Perché la scelta di ambientare la vicenda negli anni ’50?
Il tutto parte da un’analisi del personaggio di Mirandolina, unica protagonista femminile di tutta la drammaturgia goldoniana, la quale rappresenta il carattere di una donna che non è rivoluzionaria, dal momento che utilizza ancora la malizia delle arti femminili per irretire gli uomini, ma che inizia a presentare tratti di emancipazione femminile. Si tratta infatti di una donna che cerca di affermare una propria identità su tutto e su tutti. Negli anni’50, quando lo abbiamo ambientato noi, sta succedendo esattamente la stessa cosa: io mi sono ispirato a Riso Amaro di De Santis perché lì le mondine diventano in qualche modo partecipi della loro vita, prendendone le redini nelle loro mani; non dimentichiamoci poi del suffragio universale in Italia del ’46 che segna un periodo di svolta nella storia femminile. Ovvio Mirandolina non è Rosa Luxemburg , non è nemmeno una femminista lineare, può essere però immaginata come una donna in una fase di pre contemporaneità e dunque di pre modernità in cui decide di rendersi indipendente e libera, esclusivamente con i propri mezzi di seduzione e di spirito d’accoglienza; concetto che peraltro è andato tristemente scomparendo nel nostro Paese. Mirandolina di fatto è accogliente con i propri ospiti, ma questo, a parer mio, è una dote! Nella nostra lettura abbiamo inoltre reso la donna maggiormente intrigata dal Cavaliere di Ripafratta, rispetto a quanto lo sia nel testo originale, spingendo su certi tratti di passione amorosa ambigui e non del tutto svelati.
Che ruolo ha la musica in questo spettacolo?
La musica è molto presente: abbiamo deciso di utilizzare il personaggio del marchese di Forlimpopoli (Andrea Ortis) che peraltro parla in veneto e rappresenta una sorta di “dandy fuorimoda”, come baluardo di quel gusto popolare per l’opera lirica, che è tipico della zona della Padania (Parma, Reggio, Ferrara). Per cui per tutta la durata della messa in scena, parla e canta indistintamente arie d’opera e arie di canzonette, come ad esempio “Ma l’amore no” e tante altre dell’epoca. Subentrano poi gli swing di Glenn Miller. Anche per la musica ritorna il riferimento a Riso Amaro e a Ossessione di Visconti, ma anche a De Sica in Ieri oggi e domani: ho infatti ripreso una scena proprio dal duetto tra la Loren e Mastroianni.
Possiamo dire allora che le tue messe in scena risentono parecchio dell’influenza del cinema?
Assolutamente, il cinema influisce particolarmente, soprattutto come linguaggio. Non solo il cinema però, anche l’arte contemporanea. Peraltro a me piace lavorare sui classici in maniera moderna: quest’anno ho deciso di fare un lavoro sul Saul, che ha debuttato su diversi palchi già qualche tempo fa, dando una matrice tutta yiddish, tutta legata alla musica Klezmer mischiata al Requiem di Mozart (contemporaneo di Alfieri) data la sua estrema modernità di linguaggio. Quando lavoro sui versi penso sempre al cinema, sarebbe impossibile il contrario! Mi sono reso conto che ci sono ormai delle convenzioni teatrali che oggi non reggono più: ho messo in scena , ormai nel 2003, un Romeo e Giulietta che era tutto itinerante, ambientato negli anni ’30 fra il jazz e lo swing, tra due famiglie italo-americane, ho dovuto prendere Diego Florio, che peraltro qui interpreta Fabrizio, ma che ai tempi interpretava appunto Romeo e mia figlia Eva che interpretava Giulietta, qui Dejanira, in quel caso uno aveva 20 anni e l’altra 16, quindi possedevano un’età coerente col testo, ed è stato in quel momento che ho capito che se avessi voluto prendere attori più maturi questo sarebbe stato impossibile, poiché lo spettatore di teatro, come quello del cinema, non crede più ad una Giulietta di 40 anni! Ecco allora, in questo senso, oggi, mi ritrovo “costretto” ad assumere certi linguaggi del cinema, così come sono costretto a tener conto di certe verità. Ed è proprio il cinema che ti costringe oggi a recitare a teatro in maniera non barocca. Rimane poi il fatto che è bello, secondo me, portare nei classici delle suggestioni che ci sono oggi! Ho fatto ad esempio un Amleto nel 2005 con Giorgio Careccia, portandolo tutto in un’ambientazione giapponese fra samurai, con costumi tipici quali il kimono, e con riferimenti al linguaggio giapponese, inserendoci e mischiando dell’altra musica: all’inizio lo spettacolo si apre sulle note di Elvis Presley per confluire nel duello con le katane fra Amleto e Polonio scandito da “All along the watchtower” di Bob Dylan eseguita da Jimi Hendrix. (Sorride) La mia cultura in fondo è quella del rock ed esso è il mio vademecum, anche nella mia esperienza teatrale; penso sia proprio questa la bellezza di linguaggi diversi.
A proposito di influssi non occidentali: lei è fondatore del Teatro del Loto, allestito secondo il gusto orientale e curato in ogni minimo dettaglio per garantire versatilità, perché questa scelta di allestimento?
Devo dire che è stata una scommessa, io ero direttore artistico del Teatro Savoia di Campobasso, un giorno entrai in questa sala parrocchiale in occasione di un invito di amici per vedere una commedia di Pirandello, e vidi questo spazio che offriva parecchie possibilità di trasformazione, quindi già da lì mi feci un’idea molto precisa per l’allestimento. Ottenni poi dalla curia la possibilità di rilevarla. Insomma ho fatto un investimento insieme alla cooperativa che ho fondato, e soprattutto privatamente, perché volevo creare uno spazio per i giovani, volevo creare uno spazio propedeutico a tale professione. Ho cercato di creare un luogo il più accogliente possibile, dove gli artisti si potessero sentire a casa. Oggi molte personalità importanti considerano il Loto come il più bel piccolo teatro d’Italia, e devo dire che sono passati parecchi artisti: da Silvia Orlando a Elio Germano, da Fabrizio Gifuni a Silvia Gallerano, altri come Nanni Moretti, Sgarbi e Gassman ci hanno donato, secondo un’usanza tipica del teatro, la sedia in platea. Posso affermare con orgoglio che oggi siamo riusciti a creare una compagnia che ha permesso di “coltivare” il nostro territorio, creando delle professionalità assenti prima nel nostro territorio; il cast attoriale e la troupe tecnica è infatti composta totalmente da enti molisani.
Perché ha scelto di adottare il nome di un fiore?
Nella cultura buddista il fiore del Loto è un fiore che nasce nella stagnazione e i suoi petali sono perfetti nonostante la matrice di melma da cui si formano, questo sta a significare che le cose più preziose si originano da ambienti spesso impervi e dai quali nessuno si aspetterebbe nulla di buono… Io poi l’ho utilizzato anche come acronimo di LIBERO OPIFICIO TEATRALE OCCIDENTALE. Quanto tempo ha impiegato per la realizzazione del suo teatro? Eh, ci ho messo ben cinque anni. Mi serviva anche del tempo per trovare i soldi! Penso però che ne sia valsa la pena perché ha reso più felice qualcuno; penso anche a molti attori della compagnia, come Giulio Maroncelli, che qui interpreta il servo, che è proprio cresciuto nel Loto, e come lui, così tanti altri, i quali sono entrati nella compagnia ancora liceali e ne sono usciti professionisti. Siamo poi riusciti a farci riconoscere come Compagnia dal Ministero dei Beni e della Cultura, nonostante ci siano ancora delle difficoltà a gestire questo spazio, tipiche del mestiere.
Il Loto prevede dei corsi di formazione teatrale anche per bambini, c’è quindi una volontà di “investire” sulle generazioni future nonostante questo momento di crisi per il teatro e per tutta la cultura?
Direi proprio di sì, ritorna infatti il concetto di “arte per vincere”, l’arte per vincere le paure della propria vita, l’arte per vincere la propria condizione sociale, poiché se si ha talento nessuno può fermarti; certo, siamo in un Paese dove questo non viene riconosciuto, ma se lo si possiede ci si può allora permettere di “scappare”, di abbandonare qualunque condizione si abbia, sia essa di povertà o di ricchezza. Il talento, difatti, aiuta a vincere la vita, a superare i propri limiti, è l’unica possibilità, secondo me, nel mondo occidentale… L’arte poi sta anche per mestiere, dunque l’Arte per vincere è l’industriarsi per vincere, il mettere in gioco se stessi, che è poi quello che fa qui Mirandolina e che dovrebbe fare anche questo Paese, dunque anche qui i bambini imparano a mettersi in gioco con loro stessi sin da subito. È solo l’arte che consente di andare oltre al proprio limite, permettendo un riscatto personale e aiutando gli altri a stare bene. In fondo avrei potuto inserire come sottotitolo l’Arte per vincere appunto o l’Arte per essere felici e sarebbe stata la stessa cosa!
Adesso quali sono i suoi progetti futuri?
Subito dopo la Locandiera, mi accingo a interpretare Re Lear, attraverso uno studio sulla pazzia nella senilità del potere e nella famiglia. Mi auguro possa andare al meglio!
di Martina Di Nolfo (da teatrodamstorino.it)