Il concetto problematico della morte
Non c’è niente di più umano che dedicare il giorno della commemorazione dei defunti al ricordo di quanti hanno lasciato fisicamente la vita ed al senso che essa può avere
di Umberto Berardo
03 novembre 2016
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Sappiamo che molti, considerandolo nella sua negatività come eliminazione degli elementi biologici, cerebrali, psicologici e sociali che costituiscono la vita come l’insieme delle relazioni umane, tendono a rimuovere l’evento della morte.
C’è chi, come ad esempio J. P. Sartre, lo considera un “puro fatto” e ne ha una concezione legata al termine dell’esistenza ed al suo concludersi nel nulla, mentre altri, legati ad un’escatologia religiosa cristiana, lo vedono come una separazione dell’anima dal corpo per l’inizio di una nuova vita in un mondo ultraterreno o, come nell’Induismo, in una reincarnazione o ancora, come nel Buddhismo, nella “rinascita” ovvero il persistere in eterno della vita di ogni essere vivente come parte dell’intero universo che dura per sempre.
Poiché tanta parte del pensiero filosofico e religioso ha considerato la morte fondamentalmente estranea alla condizione primigenia della natura umana, si è cercato in qualche modo di dare una spiegazione della sua origine e della funzione che essa assume nel percorso esistenziale.
In ogni caso, al di là di qualsiasi interpretazione escatologica o di rappresentazione maturate nel corso dei secoli, il decesso di una persona appare ai più come un elemento negativo al pari della sofferenza e del dolore e come tale è concepito nell’immaginario collettivo.
La stessa definizione di morte, legata com’è stata dapprima all’idea dell’arresto cardiaco ed oggi sempre più a quello encefalico, è problematica a livello concettuale con diversificazioni connesse ai criteri che demarcano il confine tra la vita e la sua fine ed al riconoscimento dei requisiti minimali perché si possa parlare di esistenza.
Nonostante le sollecitazioni di molti filosofi, quali Epicuro, Seneca, Sant’Agostino, Kierkegaard, Heidegger, a vedere nella morte l’espressione della finitezza dell’essere umano e ad accettarla serenamente come un elemento inscritto alla dimensione dell’esistenza ed al processo del genere, in realtà continua ad essere vissuta come un momento terribile ed angoscioso legato soprattutto alla fine di un’esperienza di relazioni affettive, culturali ed umane difficili da interrompere per chiunque.
Sicuramente, come in Kierkegaard, appare ai più un’ineluttabile aporia della condizione umana.
Nella società opulenta e benestante non manca chi, quando pensa alla morte, ha davanti unicamente quella dell’altro, come se la propria potesse essere sospesa in attesa di una sua sconfitta da parte di strumenti scientifici innovativi.
Ci sono perfino cristiani, come scrive Joseph Ratzinger nell’enciclica “Spe Salvi”, che “rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo”.
Al tema di cui ci stiamo occupando sono legate tra l’altro questioni molto spinose quali quelle connesse ai concetti di sofferenza, dolore e panico che accompagnano soprattutto soggetti con malattie incurabili che ne vivono lo stato terminale.
È rispetto a tali situazioni che s’intensifica una riflessione articolata, spesso contrastata e diremmo anche sofferta sull’eutanasia non solo tra atei e credenti, ma anche all’interno di posizioni apparentemente omogenee.
Certo non avremo esperienza della morte personale, ma ne abbiamo a sufficienza di quella altrui che abbiamo il dovere sociale di rendere quanto più possibile serena.
Come scrive opportunamente Lilia Sebastiani ” uno degli aspetti più penosi del morire … è l’umiliazione psicofisica, l’abbandono, la morte sociale e relazionale che precede la morte fisiologica ” .
Noi crediamo che per riconciliarci con la condizione di esseri soggetti alla mortalità abbiamo bisogno anzitutto che la nostra vicenda umana come individui sia vista all’interno di un universo in cui la vita continua anche dopo la nostra fine ed al cui scorrere noi partecipiamo con il nostro segmento esistenziale attraverso gli aspetti positivi che riusciamo a farvi confluire con quanto trasmettiamo a quelli cui abbiamo dato la vita biologica ed agli altri cui ne abbiamo trasmesso un’altra di natura scientifica, etica e culturale.
Stiamo pensando, ad esempio, in questo momento a quanto hanno lasciato al fluire della vita successiva dell’universo soggetti come Francesco d’Assisi, Mohandas Karamchand Gandhi o Martin Luther King.
Il nostro compito, come già sosteneva Seneca, è quello di vivere anche la morte non perdendo mai la razionalità ed in perfetta sintonia con la natura umana di cui la prima è parte.
Anche quanti, come noi, hanno fede in una vita che nell’universo continua nell’amore di quel Dio che ci libera ogni giorno dal male con il suo messaggio salvifico, sanno che il momento della morte, per i suoi aspetti di separazione dalle relazioni terrene, ha bisogno di momenti di dignità che devono essere il più possibile legati agli affetti familiari più profondi e delicati.
In ogni caso è l’amore più intimo che deve abbracciare anche chi si sta spegnendo come ci ha insegnato per secoli la migliore civiltà contadina di cui siamo figli.
È per questo che vediamo con sospetto e preoccupazione i cosiddetti “hospice” per i malati terminali, a meno che non siano capaci di ricreare davvero un clima familiare autentico.
Se osservate i massacri delle guerre che continuano da secoli, concorderete sicuramente nell’idea che la morte non è un concetto da rimuovere, ma sul quale attivare attentamente una riflessione perché almeno lo si cancelli dalla storia quando non è un evento naturale ma provocato come effetto del male che s’insinua nella società attraverso la cattiveria degli esseri umani.
di Umberto Berardo