La Tresca
Per chi non l’ha vissuto, la mietitura e la trebbiatura di un tempo
di Peppe Lib – fb
13 giugno 2018
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Era la conclusione del raccolto agricolo più importante dell’anno, seminato l’autunno precedente e ben curato durante tutta la primavera, era ormai ingiallito e fervevano i preparativi della mietitura: si arrotava la falce.
Il lavoro di mietitura cominciava la mattina presto, quando uomini e donne tagliavano alla base le piante di grano e le affastellavano in covoni ”R, MANUOCCHIE” stretti con i legacci fatti dello stesso frumento”LA CASA”. A mano a mano si allineavano sul campo cataste di una decina di covoni ”ACCHIA”. Durante i lavori di mietitura, uomini e donne, vecchi e giovani si coprivano da capo a piedi per proteggersi non solo dalla particolare polvere silicea del frumento che arrecava prurito e abrasioni, ma anche dal sole, perché la pelle pressoché arrostita caratterizzava il contadino e ciò abbassava il livello sociale della persona e si sfigurava nei confronti di altri paesani.
Finita la mietitura, si ritornava nei campi con asini o muli, sellati con appositi contenitori ”CIVERE” per riprendere i covoni e portarli nelle aree esterne predette ”L’ARA” per farne una catasta ”ACCHIONE”.
Finalmente, dopo un certo periodo di tempo, arrivava il turno della trebbiatura e quello era un giorno particolarmente intenso di lavoro e di attività connesse, tanto che i bambini accorrevano a frotte per vedere arrivare il trattore ”Landini” che trainava la trebbia, e la pressa,
Queste macchine operatrici erano allineate parallelamente alla catasta dei covoni,”ACCHIONE”, si fissavano al terreno, e si collegavano i volani con cinghie al fine di trasmettere il movimento generato dal trattore a tutte le altre parti mobili di trebbia e pressa.
Nel frastuono assordante, ritmato dal “Landini”,iniziava un lavoro di squadra in cui ognuno aveva un ruolo preciso come tante formiche, uomini e donne si muovevano in sincronia tra ordini secchi e perentori e nugoli di polvere, si passavano i covoni delle cataste e li facevano giungere all’operaio addetto alla slegatura ed all’immissione delle spighe nel vano del battitore. Era il meccanismo della trebbiatrice, costituito da una serie di cilindri a barre ruotanti a gran velocità che sgranavano le spighe. I chicchi, liberati dagli involucri fiorali passavano attraverso crivelli e correnti d’aria ed infine si accumulavano nei sacchi posti dietro la trebbiatrice. Gli involucri fiorali, ”LA CAMA”, invece, veniva espulsa da un tubo che faceva parecchia polvere. Gli steli della pianta erano invece espulsi, tramite gli scuotipaglia, ”i squàsapàia”, allo scopo di recuperare fino all’ultimo chicco, e poi erano convogliati in una tramoggia della pressa disposta di seguito alla trebbiatrice. La pressa comprimeva in senso orizzontale e si ottenevano così le balle di paglia legate con fili di ferro, caricate sulla schiena erano trasportate verso la catasta della paglia utilizzata in seguito come ”lettia” per gli animali in stalla.
Appena il grano cominciava a piovere dalle bocche nei sacchi, si compiva la prima stima del raccolto: il proprietario e i vicini più autorevoli ne prendevano un pugno e, facendo scorrere i chicchi tra le dita , ne valutavano la pienezza ,il peso, la maturazione e si scambiavano pronostici sulla resa finale. I sacchi pieni di chicchi di frumento erano caricati sulle spalle degli operai più robusti e svuotati nel granaio, o in appositi contenitori chiamati ”QUASCIONE”.
Le donne superavano loro stesse, cucinando i piatti migliori. Fritti e stufati e andavano ad imbandire tavolate improvvisate dove si offriva il meglio, il vino bianco e rosso scorreva a fiumi, e gli uomini accaldati si tuffavano in quel ben di Dio, come si tuffavano con la testa nell’acqua fresca delle conche, per avere un po’ di refrigerio.
Tutto era in sincronia e tutti erano in sincronia.
Meglio ancora, in armonia.
Lavoravano come se stessero seguendo i passi di una danza, osservando i loro volti non trovavi traccia di rabbia o di fatica, solo sorrisi schietti e radiosi di felicità.
La felicità c’era davvero in quel rito, perché altro non era quel sistemare finalmente qualcosa che avevi aspettato quasi come un figlio.
Nove mesi, tanto serve al grano dalla semina al raccolto.
Non poteva non essere che una festa, e giusto come per un figlio al momento del parto, veniva dimenticata ogni fatica precedente.
L’esito del raccolto avrebbe determinato la qualità della vita dell’anno dopo per tutta la famiglia e l’esaltazione di quel momento la respiravi nell’aria assieme alla polvere.
di Peppe Lib – fb