• 15 Giugno 2018

Qui in paese non c’è niente, nessuno

Ragazzi delle montagne, fuga e senso di vuoto

di Michele Zucca

15 giugno 2018

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Quando si vive in un paese delle nostre montagne, si sa che si è obbligati a “muoversi”, specie nei piccoli centri e nella componente giovane della popolazione. Le cifre del pendolarismo lavorativo sono quantomeno preoccupanti. 

Anche perché dopo un certo periodo in cui si fa avanti e indietro sobbarcandosi tre ore di strada al giorno, ci si trasferisce in maniera definitiva in una città grande o sempre più spesso, all’estero.

Chi rimane nei paesi, a parte poche eccezioni, si accontenta di professionalità di basso livello: microimprese di edilizia, in cui la qualificazione è limitata, ma, a fronte di esigenze di vita tutto sommato limitate, il reddito è abbastanza elevato; spesso le ragazze rimangono a casa, o fanno le pulizie, o la stagione. In molte famiglie, quelle che hanno avuto minori opportunità di confrontarsi con l’esterno, che sono poi quelle i cui membri rimangono con più facilità in paese, la tendenza ad “accontentarsi” porta ad una scarsa considerazione per lo studio, sia da parte dei genitori, che da parte dei giovani, che non si sforzano troppo per entrare in un mondo che oltre tutto li considera già inferiori.

Chi conosce i ragazzi delle valli sa che, quando arrivano alle scuole superiori, e quindi si staccano per la prima volta dal gruppo dei paesani, devono sopportare un grande sforzo di inserimento, perché in tanti casi, negli istituti delle città perialpine, sono discriminati, non sono inseriti nel circolo delle amicizie dei compagni, i quali fanno semplicemente finta che non esistano, e fanno gruppo fra loro. Ancora una volta, vengono apostrofati con appellativi come “contadino”, “montanaro”, “paesano” come sinonimo di arretrato, ignorante, rozzo.

Comunque, anche da parte di chi lavora fuori, l’attaccamento al territorio rimane alto, nei limiti del possibile però, e per motivazioni utilitaristiche: comprare casa in città è troppo caro. Così quando si torna la sera, al fine settimana, o per le vacanze, si è troppo stanchi per impegnarsi nella vita del paese, spesso si viene percepiti dagli altri come “chi se n’è andato”, quindi si preferisce rintanarsi in un rassicurante ambito familiare, che non fa nulla per spingere alla partecipazione.

Sempre più, i paesi si trasformano in quartieri dormitorio, appendici funzionali delle città, deserti, in cui ci si muove in macchina, dove la sensazione prevalente è “non c’è niente, non c’è nessuno, se ne sono andati tutti, se ne vanno tutti”: e queste sono le voci raccolte anche in paesi dove la popolazione è in crescita! D’altra parte, non è la realtà materiale ciò che conta, ma la realtà percepita, che consente di mettersi in gioco e di rischiare. 

L’abbandono mentale e la volontà di fuga

La variabile che consente la scelta fra l’abbandono e la costruzione di qualche cosa di diverso per poter sopravvivere nei paesi di origine è antropologica: passa attraverso la mentalità.

Dalla fine degli anni Cinquanta in poi si assiste, nella maggior parte degli insediamenti alpini che traggono il loro sostentamento dall’alpicoltura, al manifestarsi di veri e propri shock culturali, conseguenza dell’emigrazione massiccia (verso l’America, l’Australia, la Svizzera, il Belgio, la “città”), che acuisce i traumi psichici da spaesamento-sradicamento, che, forse, erano già in atto. L’impatto della nuova cultura industriale e metropolitana sul tessuto socio-culturale alpino assume i caratteri di un evento fortemente destabilizzante. Le comunità delle Alpi sono letteralmente colonizzate, sottoposte a processi rapidi di acculturazione, che non possono essere rielaborati e metabolizzati perché troppo rapidi. Il mutamento di valori è stato veloce e devastante. Per i giovani, si profila un orizzonte svuotato dei punti di riferimento consolidati e accettati, e la sensazione di essere subalterni nei confronti della società urbana (assolutamente accettata e condivisa da parte dei metropolitani, che non perdono occasione di far pesare una propria presunta superiorità).

Basti pensare alla percezione degli accenti: mentre le inflessioni dei dialetti di pianura sono spesso e volentieri ascoltati alla televisione nazionale, la parlata alpina non si sente mai, ed è considerata spiacevole, dura, caratteristica di persone arretrate, poco intelligenti, rozze. Ancora oggi, la parola “montanaro”, come, d’altra parte, “contadino”, è comunemente usata come insulto o in segno di scherno.

D’altra parte, gli anziani non vivono una condizione migliore: devono sopportare l’angosciante constatazione del crollo dei propri “universi di riconoscimento” consolidati, che conferivano allo stile di vita dei propri antenati un valore di verità assoluta 1.

Il modello di riferimento culturale, importato dall’esterno, diffuso dalla scuola di massa e dai media, mal si adatta ad un tessuto sociale frammentario, debole, privo di un’identità forte. Che spesso viene, letteralmente, fagocitato, provocando fratture non più sanabili, perché non regge il confronto e non si sa difendere.

Nessuno nega l’enorme progresso, in termini di economia, qualità della vita, livello di istruzione, salute, di cui hanno potuto beneficiare gli Alpini. Ma lo sviluppo ha portato con sé costi sociali che stanno presentando il conto: il prezzo della crescita economica è la marginalità crescente di molte zone estranee ai grandi flussi di produzione e riproduzione culturale. Il lavoro con gli animali, sporco e “puzzolente”, è precipitato al grado più basso delle desiderabilità sociale, specialmente in Italia, dove, a differenza delle altre zone alpine, il numero delle aziende agricole (che altrove si è stabilizzato) è tuttora in caduta libera e costante. Stesso discorso per la superficie agricola utilizzata: la percentuale di abbandono della terra in Italia è la più alta fra le nazioni alpine 2. Nessun giovane che nutre una qualche aspettativa sul proprio futuro sogna di portare le mucche a pascersi di erba fresca. I pochi imprenditori agricoli vanno a cercarsi la manodopera là dove possono reperirla a prezzi bassi (e quasi sempre, è straniera). Dall’altra parte, i genitori di quei ragazzi che non hanno mai raccolto una palata di letame di vacca, né mai ammazzato un pollo, loro che le bestie al pascolo le hanno portate davvero, per anni, anche se magari si lamentano per “il bosco che ritorna e fa sparire i prati”, fanno di tutto perché i loro figli non facciano quell’antico mestiere. Mostrando chiaramente come siano loro i primi a disprezzare la propria cultura di origine, e non i tanto esecrati cittadini metropolitani.

L’isolamento sociale, la mancanza di contatti col resto dei coetanei che in estate vanno in ferie, l’assenza di “divertimenti” sono fra le giustificazioni che adducono i giovani montanari per non salire più in alpe. Si resiste dove, in un modo o nell’altro, ci si è organizzati per vincere la solitudine: in Francia è intervenuto il governo, finanziando iniziative culturali e sindacati che difendono le esigenze (anche aggregative) dei lavoratori stagionali di montagna; in altri luoghi, l’alpeggio è utilizzato, oltre che per la monticazione delle bestie, per le vacanze degli abitanti del paese, che non hanno più le vacche ma si sono rimessi a posto le baite e consentono di ricreare un insediamento vitale in quota, che permette a chi lavora di non sentirsi fuori dal mondo come succede in vallate alpine come la Valtellina e la Val Chiavenna. Ma dove la struttura del lavoro affidava ad un malghese di professione la cura degli animali di tutti, la crisi è veramente profonda. Ancora una volta, il problema non è tanto economico, in quanto oggi chi si fa la stagione all’alpeggio guadagna di più di chi va negli alberghi, e, molto probabilmente, lo sforzo fisico è minore. E perfino la scarsa socialità, tanto lamentata, non so quanto sia effettivamente minore: in periodi di intenso flusso turistico, in albergo il lavoro è senza interruzioni, per mesi senza pause; anche se ci si trova in mezzo alla gente, spesso non si riesce neppure a ritagliarsi uno scampolo di tempo e di spazio per scambiare quattro chiacchiere coi colleghi. In alpe, invece, oggi nessuno è più da solo; esauriti i compiti giornalieri, i ritmi sono più lenti, e ci si può dedicare a se stessi: parlare, leggere un libro. Ma questi vantaggi, non si riesce a vederli. Questo il motivo per cui se si vuole rivalutare questo antico mestiere, bisogna riproporlo come occupazione temporanea, associata ad altre cose che procurino “più soddisfazioni” 3.

Chi non riesce a raggiungere questi “obiettivi di vita”, si sente un marginale, un escluso, un poveretto. D’altra parte, si pensa che difficilmente si potrà raggiungere una realizzazione professionale rimanendo in paese: e questa idea viene spesso confermata e ribadita anche dalla famiglia di origine, che, se nutre qualche “ambizione” sulla carriera dei figli, li spinge ad andarsene.

L’abbandono è prima mentale e soltanto in un secondo tempo assume forma fisica. I giovani, specie quelli che hanno studiato, gli elementi più sensibili, la componente femminile della popolazione, ovvero i gruppi gravemente discriminati nella società tradizionale, cominciano a disprezzare la cultura di origine, paragonandola a quella della città, più libera e aperta, più attenta alle esigenze individuali, in cui le aspettative possono essere soddisfatte con meno sforzi e sacrifici. Piano piano se ne vanno: in principio solo mentalmente e poi anche fisicamente.

Dal periodo dell’esodo di massa, però, molte cose sono cambiate. Sono quasi vent’anni, ormai, che in diverse zone le Alpi, stando alle statistiche e ai numeri crudi, sono diventate un’area di immigrazione, tanto che si potrebbe credere che problemi come la carenza di strutture sociali nei comuni, il rinselvatichimento della natura in luoghi prima coltivati, o l’esodo dai villaggi e dalle valli non esistano. Del resto, il fatto che molte aree montane lamentino una densità di popolazione ormai bassissima non è sempre dovuto primariamente al calo della natalità, ma piuttosto ai vari fenomeni di abbandono in atto già da tempo. Soprattutto i giovani dotati di un titolo di studio elevato non riescono a resistere al richiamo esercitato dai grandi centri urbani, dove possono contare su migliori opportunità formative, sbocchi occupazionali più interessanti, più possibilità di realizzarsi e, non ultimo, su un ventaglio molto più ampio di proposte ricreative, di occasioni di aggregazione, di incontro e di scambio culturale.

È inevitabile che la prima conseguenza di questa fuga di cervelli sia il minor utilizzo delle infrastrutture degli insediamenti colpiti dall’abbandono: non ci sono più abbastanza bambini da giustificare il mantenimento dell’apertura della scuola elementare, non ci sono più clienti a sufficienza per un negozio, per la farmacia, troppo pochi utenti per l’ufficio postale, la guardia medica, gli impianti sportivi; non si trovano operai per le aziende, soci per le associazioni, i pochi rimasti sono vecchi e fanno fatica a mandare avanti le cose. A sua volta, poi, questo fenomeno rende sempre meno interessanti le località e i territori coinvolti, sia agli occhi di chi già ci abita sia di coloro che, eventualmente, potrebbero andare a stabilirsi, trascinandoli in un circolo vizioso che già da parecchio tempo avrebbe dovuto allarmare le istituzioni politiche deputate alla gestione sostenibile del territorio 4.

Questa situazione non fa che aggravare alcuni tratti caratteristici e tipici della società alpina: la frammentazione sociale, il campanilismo, le rivalità fra paesi e fra frazioni, fra famiglie, fra fazioni, fra persone, che impediscono la composizione attorno ad un problema, la costruzione di un fronte comune, la realizzazione collettiva e condivisa di un progetto. Cresce la diffidenza verso chi viene da fuori, e quindi la difficoltà di accettare aiuti, pareri, consulenze esterne. Anche in questo caso, si genera un circolo vizioso, che non fa che rafforzare l’isolamento sociale, culturale, politico, esistenziale di chi rimane nelle valli.

Uno dei più importanti fattori di freno allo sviluppo e di abbandono dei paesi da parte delle forze giovani è di evidente natura antropologica: si tratta del controllo sociale, cioè del mantenimento dell’ordine e delle norme condivise.

Quel che dice la gente: giovani e controllo sociale

Le comunità alpine stanno, letteralmente, implodendo: perché si sono conservati meccanismi atavici in cui chiunque è sottoposto al giudizio di chiunque altro. Meccanismi che, da una parte, avevano la funzione di mantenere una comunità coesa, di regolare i dissidi interni prima che si verificassero conflitti non più risolvibili, ma che adesso si risolvono nella cristallizzazione di codici di comportamento e di un sistema di valori che non può più reggere con le esigenze di libertà e autodeterminazione del singolo che si sono conquistate con la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta.

Ancora oggi, il sistema di regole in cui si viene educati nei paesi, mira a mantenere la vita dei giovani entro i binari standard di diploma-lavoro-matrimonio-fondazione di un nuovo nucleo familiare. La sanzione per la trasgressione è regolata dal pettegolezzo, cioè di quanto si dice dietro le spalle, che diventa insopportabile, tanto che chi vuole vivere secondo standard diversi è costretto ad andarsene. Perché mentre i valori trasmessi dalla famiglia e dal contesto sono ancora quelli tradizionali, la televisione e i mezzi di comunicazione di massa diffondono altri modelli, più liberi, in cui, specialmente per le donne, esistono possibilità di indipendenza al di fuori della famiglia di origine. Raramente si fa una vita da single nel paese dei propri genitori: soprattutto le ragazze, sarebbero considerate delle poco di buono. Così chi vuole vivere secondo i criteri comunemente accettati dalla società contemporanea è costretto ad andarsene; gli altri, ad uniformarsi e a rifugiarsi in comportamenti trasgressivi di sfogo rimanendo all’interno della casa dei genitori.

L’ordine delle cose si perpetua attraverso delle regole di comportamento che fanno in modo che famiglie ed individui crescano il più possibile isolati, anche dietro le apparenze di una ricca vita associativa. Perché, in realtà, è estremamente difficile andare al di là della facciata: non ci si frequenta nelle case private, per paura di essere giudicati dagli altri. “Meno ci si frequenta, meno si ha da dire”: questo è un problema spesso emerso dalle interviste. I bambini di uno stesso paese non si conoscono, perché i genitori non sono abituati a frequentarsi. Spesso i bambini frequentano asili e scuole esterni al paese, in cui vengono “smistati” in classi diverse, nella convinzione di favorire nuove amicizie.

Contrariamente alle intenzioni, però, la socialità si limita al tempo delle lezioni: quando tornano a casa, trascorrono il resto della giornata solo con i familiari a casa. Le relazioni fra famiglie e fra persone sono mantenute a livello superficiale, non sono emotivamente coinvolgenti, non sono quotidiane, “normali”. Si teme la critica, si ha paura di “alimentare sospetti”, non si sopporta di essere considerati diversi, anche se di poco, dalla “gente”. Si impara a non esprimere mai un parere netto, che potrebbe dare fastidio a qualcuno; essere “estroversi” è considerato un difetto grave; essere “riservati”, al contrario, è una qualità imprescindibile se si vuole avviare una qualche relazione. Si dà per scontato che, se si va “per case”, lo si fa per il gusto di “parlare dietro”: quindi si insegna fin da piccoli che “meno si va in casa d’altri, meglio è”. Anche fra parenti, ci si invita a pranzo o a cena solo in occasione delle feste. Spesso poi, se la frequentazione esiste, è mantenuta in ambiti spaziali “neutri”: il giardino, la baita, tutt’al più, la taverna. La casa di abitazione è rigorosamente privata, i figli non possono portarci gli amici, nemmeno il marito, che per questo usa la stube. Le donne per incontrarsi hanno bisogno di una scusa: il lavoro comune nell’associazione per esempio. Ma la riunione si svolge di solito in spazi pubblici.

Molti giovani hanno riferito che, per non incorrere in “problemi”, mantengono relazioni amicali solo con gente esterna al paese. Di solito però, le relazioni extra familiari sono deboli. La diffidenza verso “gli altri” rimane il sentimento prevalente. Così la socializzazione avviene sul lavoro, dove è limitata nel tempo e nello spazio, non comporta la condivisione di spazi personali e non rende necessario “scoprirsi”. Questa situazione porta a difficoltà di espressione dei sentimenti più intimi, all’impossibilità di confidarsi per paura della critica, o della rivelazione del proprio segreto, per poi sfociare nel senso di solitudine, e, nei casi più gravi, arrivare fino alla depressione.

Il controllo sociale è stato individuato anche dalla C.I.P.R.A. (Commissione internazionale per la protezione delle Alpi) come uno dei principali problemi e come una delle maggiori cause di abbandono dei paesi piccoli: questa la ragione per cui un cambiamento culturale è necessario se si vuole frenare il movimento di spopolamento e assicurare uno sviluppo a gran parte del territorio alpino. I meccanismi di “critica”, infatti, giocano un ruolo fondamentale nell’impedire ai singoli di “esporsi”, e quindi di assumere responsabilità di cambiamento e iniziative imprenditoriale all’interno dei comuni di origine.

Il risultato in termini economici è che gran parte dei capitali (che pure non solo esistono ma in alcuni casi sono anche ingenti) o rimangono immobilizzati in banca, o, peggio, vengono investiti fuori o addirittura all’estero, dove “nessuno ti conosce” o “nessuno ha nulla da dire”. Talvolta, pur di non far vedere che si dispone di più soldi dei compaesani, non viene nemmeno ristrutturata la casa di famiglia, mentre vengono comprati appartamenti in città o ville all’estero.

I giovani e la paura del rinnovamento

Il controllo sociale diventa ancora più opprimente nel caso di categorie deboli, come i giovani e le donne. Perché le “redini” sono ancora saldamente in mano ai “vecchi”, non solo e non tanto di età ma di cultura e tradizione: i ragazzi, o adottano valori e comportamenti degli anziani, o vengono isolati e dissuasi alla partecipazione alla vita attiva del paese. Fin dall’infanzia, vengono deresponsabilizzati: all’interno della comunità non esistono spazi di libertà che possono gestire, in cui assumere decisioni e assumersene le conseguenze. Fra loro non fanno gruppo, perché gran parte delle scuole dei paesi sono state chiuse, quindi la socializzazione primaria è mediata dal pendolarismo e dallo smistamento in classi con bambini di altre provenienze. A ciò bisogna aggiungere che le famiglie non si frequentano in casa, e che non succede più, come nei decenni passati, che si trascorrano i pomeriggi a scorrazzare insieme su e giù per campi e montagne. Oggi, nei paesi come in città, gran parte del loro tempo passa fra le mura domestiche, davanti alla televisione, fra computer e videogiochi. Normalmente, i genitori non accolgono bene gli amichetti dei figli e la situazione non migliora con l’avanzare dell’età.

La socializzazione quindi avviene al bar, se esiste in paese. Ma anche qui, non è possibile “lasciarsi andare”, per timore che “gli altri” (che sono poi il gruppo degli amici!) vengano a conoscenza dei “fatti tuoi”: allora per confidarsi si va fuori, in macchina. L’auto è il luogo dell’intimità: in seguito, diventerà l’unico posto in cui è possibile avere rapporti sessuali, perché generalmente si vive con la famiglia anche da adulti e molto più che in città, quindi, dato che non si dispone di un appartamento proprio e a casa dei genitori è assolutamente tabù parlare di certe esigenze. Anche l’altro luogo di socializzazione, le feste di paese, sono organizzate da gente adulta, ripetono vecchi cliché e si svolgono alla presenza di tutto il paese, che sorveglia e controlla i membri più giovani, in maniera tale che “non succeda niente”. In un altro comune in cui è stato svolto il lavoro di campo, non è stato possibile neanche aprire la biblioteca due ore la sera, senza sorvegliante ed insegnate che vigilassero che i ragazzi “non facessero niente”! Così, per divertirsi e fuggire dal controllo dei “vecchi”, si va fuori, anche lontano, a fare il “giro dei pub” o in “discoteca”.

Naturalmente, esistono delle eccezioni: a Terragnolo per esempio, parrocchia e amministrazione hanno lasciato, nonostante una prima opposizione, che un gruppo di ragazzi anni fa si autogestisse uno spazio denominato, significativamente, “el bùs”. Ma i giovani hanno potuto fare “scuola di responsabilità”: ovvero organizzare feste, comprare cibo e bevande pagandole di tasca propria (e dovendo rientrare nelle spese), cacciare fuori elementi molesti e disturbatori, quindi assumersi l’onere di tenere con altri comportamenti repressivi, discutere fra loro su che cosa fosse o non fosse meglio fare… Significativamente, molti di quelli che hanno accettato di impegnarsi nelle proposte avanzate dai nostri operatori a Terragnolo provengono proprio dall’esperienza del “bùs”. La stessa cosa, in tono minore, è avvenuta a Cimego, dove il bar è stato riaperto su richiesta dell’amministrazione comunale, ed è diventato uno de luoghi di ritrovo per i giovani dei paesi intorno, anche se non viene autogestito in senso stretto. Non c’è da meravigliarsi che questi due comuni siano molto attivi, con persone giovani e dinamiche presenti in consiglio comunale, avviate lungo un percorso diverso rispetto agli altri.

L’acuto disagio giovanile di cui soffrono i ragazzi dei paesi, e di cui ci si vergogna di parlare, racconta consumo di droghe, di cui vanno a rifornirsi nelle città perialpine. Spesso ci sono comportamenti a rischio, che tradiscono un desiderio di evasione e una noia a cui non esiste sbocco. Ci sono discoteche enormi, posizionate all’imbocco delle valli, in cui la ricerca dello sballo al sabato sera è la norma. I giovani, all’uscita delle discoteche o meno, devono provare a se stessi e agli amici che “valgono qualcosa”: e allora schiacciano il pedale dell’acceleratore fino a schiantarsi contro un muro.

In altre zone alpine, c’è poi una serie preoccupante di delitti “inspiegabili”, che “senza ragione”, innescando fenomeni da caccia alle streghe o ricorrendo al satanismo per cercare di dare una spiegazione esterna ad una realtà che è malata al suo interno. D’altra parte, dei giovani si ha una gran paura: personalmente, mi sono vista negare il permesso di organizzare un festival di musica celtica in una valle trentina da parte di amministratori pubblici con la motivazione che “i ragazzi si fanno le canne e noi non siamo in grado di controllarli”. In un altro piccolo comune del circondario di Trento in cui ho fatto attività per anni, uno dei responsabili della Proloco mi ha riferito con orgoglio che hanno chiuso immediatamente la “saletta” concessa agli adolescenti del paese (in cui non esiste alcun luogo di ritrovo da anni, nemmeno il bar, e la popolazione è in calo malgrado la vicinanza al capoluogo) al primo “sospetto” che questi si “facessero le canne”. In realtà nessuno aveva mai avuto comportamenti meno che legali, ma avevano cominciato a vestirsi in maniera un po’ differente dagli standard.

Altri comportamenti, molto più pericolosi dell’uso di hashish, vengono invece accettati (purché non causino scandalo) o ci si rifiuta di riconoscerne le vere cause: vedi l’abuso di alcolici, culturalmente tollerato in ogni classe di età, che però viene accompagnato dall’assunzione di stupefacenti in discoteca, dal nomadismo notturno nei locali e, spesso, da incidenti stradali mortali nelle prime ore del mattino nei fine settimana. Quando si verificano episodi di questo tipo, dovuti in maniera eclatante allo stato di ubriachezza e alle pasticche di eccitanti, tutti gli abitanti del paese fanno a gara a ripetersi (e a ripetere agli sfortunati genitori) che non ci possono credere, “erano proprio dei bravissimi ragazzi”, “nessuno beveva”, “proprio una grande sfortuna”, “un colpo di sonno su quelle strade orrende”, “una curva presa male”, “da anni abbiano chiesto all’amministrazione di rimettere a posto la strada che in quel tratto è troppo pericolosa” e via dicendo, mettendo in moto un meccanismo di rimozione del problema e di assicurazione mutua e collettiva che il problema non esiste, perché “quelle cose lì” le fanno solo i cittadini. L’evidenza mostra però che gran parte dei morti arriva dai paesi di montagna o di aree rurali.

Quando accade qualcosa di veramente grave, e il disagio sfocia in delitto, o in suicidio, la tendenza, ancora una volta, è di non parlare del problema, non cercarne la causa, sperando che prima o poi “ogni cosa si aggiusti”: non esiste un’assunzione di responsabilità sociale e collettiva di fronte a questi fatti, che sono trattati come “tragiche fatalità”. Se qualcuno tenta di parlarne, si cerca di negare l’evidenza o di impedirglielo: è il caso della tesista della Val di Sole che evidenziò il gran numero di suicidi.

O il caso del delitto di Castel Condino, proprio sopra Cimego, quando un giovane abitante nella Valle del Chiese ha ucciso la moglie romena per una storia di supposti tradimenti. Il caso di uxoricidio si è trasformato anche in suicidio quando l’omicida ha deciso di togliersi la vita gettandosi da una finestra.

La pressione all’omologazione agisce in maniera diversa sui giovani a seconda del sesso: è molto più profonda sui ragazzi, anche perché nel modello tradizionale, il ruolo del maschio è dominante. Mentre le ragazze si rendono conto fin da subito che, per poter avere una vita autonoma, devono andarsene, e spesso programmano la fuga fin dall’adolescenza; ai giovani uomini viene lasciata una certa illusione di libertà, quindi in misura maggiore rimangono in famiglia e accettano i modelli culturali trasmessi dai genitori, come il tipo di donna che “andrebbe bene”, cioè quella “di altri tempi”, la “brava ragazza” di “poche pretese”, di “valori saldi”, che non metterebbe a rischio il nucleo familiare con un divorzio da cui pretenderebbe la metà dei beni del marito, l’assegnazione dei figli e gli alimenti, per futili motivi come “la scomparsa del sentimento”.

Donne come queste però sono sempre più rare: quindi la disparità fra le presenze maschili e femminili in età fertile, il grande numero di celibi che non riescono a sposarsi, è uno fra i problemi più sentiti delle piccole comunità in via di spopolamento.

Ma qui si apre un’altra storia: quella delle donne che se ne vanno dai paesi.

di Michele Zucca (da seiinvalle.ch)

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