C’era una volta il pane
L’arte di fare il pane in case tra le montagne dell’Alto Sannio
di comune-informa.net
15 novembre 2018
Maria Delli Quadri, autrice di quest’articolo, è stata un’insegnante, ha amato la musica e la letteratura almeno quanto la montagna e la vita nei piccoli paesi nei quali ha vissuto e di cui sapeva riconoscere e raccontare il bisogno di essere comunità. Ogni tanto le piaceva condividere con Comune alcuni suoi articoli, come questo, splendido.
Un tempo il pane si faceva nelle case e la sua preparazione richiedeva lavoro e fatica fin dal giorno precedente. Innanzitutto bisognava essersi prenotati con anticipo presso il fornaio, il quale stabiliva l’ora e il giorno, poi ci si doveva procurare il lievito, un po’ di pasta molle e mezza acida, da restituire dopo tutta l’operazione a chi lo aveva prestato. La mia nonna materna era una prestatrice di questo ingrediente e lo dava solo a chi voleva lei. Una catena impegnava i ragazzi di casa nella ricerca e nella riconsegna della ciotola contenente il prezioso impasto.
A casa mia chi si occupava di sbrigare questo grosso servizio era la sottoscritta, studentessa liceale di quindici o sedici anni, addetta a lavori di questo tipo, come fare il bucato settimanale o lavare le stoviglie con acqua razionata e crusca. Pensate un po’ che igiene! Tuttavia siamo sopravvissuti. Mio fratello mi diceva sempre: “Maria due cose sa fare: lavare una callara di robe e lavare una pila di piatti. Aveva ragione solo in parte! Io sapevo anche studiare una montagna di libri e fare una “misella” di pane.
Cominciavo la sera prima, dopo aver fatto i compiti, a cernere la farina con lo staccio (cinque o sei chili) che raccoglievo poi nella “cascia” fornita di coperchio che si apriva o si chiudeva secondo il momento. Era questa una specie di madia che doveva essere appoggiata alle sedie e situata nell’ angolo più riparato della cucina per evitare gli spifferi che a quei tempi sibilavano dalle fessure delle finestre.
Al centro della farina ammucchiata (potevano essere anche più di cinque chili) si creava una sorta di cratere, nel quale si mescolavano lievito e acqua tiepida. Si manipolava e si amalgamava il tutto, poi si abbassava il coperchio che era rimasto alzato e tenuto fermo con due perni durante la lavorazione. D’inverno si poneva sotto la “cascia” una coppa di carbonella per tenere il tutto al caldo, cosa fondamentale per una buona lievitazione che sarebbe avvenuta durante la notte.
Al mattino successivo, alle quattro o alle cinque, mi alzavo morta di sonno, accendevo il fuoco sotto il caldaietto (ru cuttrllucc) e cominciavo a trafficare. Di solito era un copione che si ripeteva sempre uguale. Scaldavo l’acqua sufficiente, ci mescolavo un po’ di patate lessate e schiacciate dalla sera precedente, rialzavo il coperchio della madia e iniziavo la parte più impegnativa dell’operazione. Bisognava fare un impasto morbido, compatto e soffice e lavorare con forza (io ne avevo) dando pugni a tutta la massa, voltandola e rivoltandola fino ad amalgamarla tutta. Il verbo giusto era “puniare”. Hai “puniato” bene? diceva mia madre. Evidentemente da questo tipo di pugilato dipendeva l’esito dell’impresa.
Il “puniamento”
Dopo più di un’ora di lavoro e di “puniamento” alla fine si copriva il tutto con panni di lana tessuti a mano. Ce ne volevano diversi. Si fasciava la massa rimboccando gli angoli, si abbassava il coperchio e si rinnovava la coppa del fuoco sotto la madia. Naturalmente bisognava lasciare un po’ di pasta per il lievito da restituire a chi l’aveva prestato. La si metteva nella sua ciotola accanto all’impasto come una figlia accanto alla sua mamma. Anche il pane dormiva al caldo, come un bambino, e nel sonno cresceva e si sviluppava.
Quando si alzava mia madre, cedevo a lei le redini del comando: avrebbe provveduto più tardi, dopo circa tre ore, a continuare l’ opera. In fretta mi preparavo per andare a scuola lesta e felice di avere svolto un compito tanto impegnativo. Certo la testa ciondolava un po’, il viso era arrossato per la fatica, ma tra i compagni smettevo l’abito della massaia e riprendevo quello della studentessa un po’ monella e intrigante, pronta ad accapigliarmi con gli altri per Coppi e Bartali. Non amavo raccontare le mie peripezie casalinghe: la mia vita si snodava, come si dice oggi, in compartimenti stagni.
Intanto il pane, una volta ricresciuto, veniva diviso da mia madre in tanti pezzi più o meno uguali e sistemati in una “mesa”, coperti dai soliti panni di lana. Sulla superficie, una tovaglia bianca e pulita che poi sarebbe stata giudicata dalle compagne di forno come indice di assennatezza o di sciatteria. Un po’ di pasta rimaneva a casa e serviva per fare le pizze fritte (vera prelibatezza) o “ru susill” panino cotto sulla piastra arroventata del camino. In quei giorni la colazione era degna di Lucullo (antico romano un po’ ingordo che amava mangiar bene). All’ora stabilita arrivava la donna addetta al trasporto o verso il forno di Sant’Antonio o a Maiella da zia Marietta. Si chiamava Giulia Tre Tré (soprannome). Con il carico in testa, sulla “spara” (cercine), andava come una regina con una mano appoggiata all’orlo della “mesa” e l’altra ciondolante per equilibrarne il peso. In casa si rimetteva tutto in ordine e ci si preparava a riaccogliere Giulia che sarebbe tornata nel pomeriggio col prezioso carico.Intanto il pane era arrivato al forno dove faceva molo caldo, perché l’accensione della legna era stata fatta fin dalla notte. Le mese erano sistemate ai due lati sui banconi e le donne sorvegliavano con accortezza il proprio bene, supportate dalla fornaia che dispensava consigli e decideva chi doveva per prima infornare. Le prime ad entrare nella grossa bocca spalancata erano le “pizze”, che oggi si chiamano più modernamente “focacce”. La pala dal lungo manico depositava sul fondo i pezzi in bell’ordine, quindi era la volta dello sportello che veniva chiuso ermeticamente. La pala poi, come dotata di volontà e forza propria, spostava, avvicinava o allontanava, di tanto in tanto, tutto il ben di Dio per farlo cuocere uniformemente. Una volta uscite le pizze, che spandevano nell’aria un profumo delizioso, era la volta del pane vero e proprio, i panelli, per la cui cottura ci voleva più tempo.
Le compagne di forno accompagnavano per un po’ il rito del riconoscimento e della sistemazione nella bocca incandescente. Per ingannare l’attesa chiacchieravano fra loro e raccontavano fatti e pettegolezzi riguardanti persone di comune conoscenza, liti e discussioni avvenute con cognate, nuore, suocere, vicine di casa. Era una comunicazione diretta, senza il filtro dei media. Era gossip allo stato puro che veniva poi raccontato alle amiche in gran segretezza, salvo poi queste ultime a riferire ad altre persone le notizie apprese, con aggiunta di particolari più o meno veritieri. “Fama it per urbem” avrebbe detto Virgilio (la voce si diffonde per la città – Eneide – IV Canto). Quando poi si toccavano argomenti scabrosi, si usavano metafore e allusioni velate per non farsi capire da eventuali minori presenti, i quali però percepivano (eravamo anche noi edotti a nostro modo) parecchi sottintesi e “appizzavano” le orecchie facendo la faccia da scemi.
Dopo alcune ore era pronto il pane: bello, dorato, croccante. Nell’ aria si diffondeva un secondo profumo che sapeva di casa, di mensa, di ricchezza. Cominciava il viaggio di ritorno delle mese verso le case. Giulia ci riportava il nostro carico ed era questo il momento dei pagamenti e delle mance. Era una festa per gli occhi, era la felicità per la famiglia, era la ricchezza che ci avrebbe messi al riparo da ogni forma di indigenza. Mia madre conservava i “panellucci”, bene avvolti in altri panni, giù in cantina in una caldaia di rame chiusa da un coperchio pesante con delle pietre poste sopra, onde evitare sgradevoli incursioni. Dopo dieci o più giorni la freschezza era intatta: era il pane della parsimonia, della genuinità, miracolo della semplicità che caratterizzava la nostra vita.
Prima di essere riposte le pagnotte erano state valutate, soppesate, rimirate una per una. Se soddisfacevano la vista e il tatto, il merito era della farina; se presentavano qualche piccolo neo, la colpa era di chi non aveva puniato abbastanza. Oggi, soprattutto nelle campagne, il pane si fa ancora secondo questi antichi riti e nei nostri paesi ci sono forni che producono il prezioso alimento in modo artigianale. Noi siamo felici di questa realtà che conserva ancora un che di autentico e genuino. In città andiamo al supermercato dove abbiamo un’ampia possibilità di scelta: la pagnotta, lo sfilatino, il filone, la rosetta, il panino la focaccia; con le patate e senza patate, di grano duro o di grano tenero, col sale e senza. C’è il pane di Longano, Venafro, Torrebruna, Villetta, Pizzoferrato, Bomba; di Palazzo, di Priolo, di Gargiso. A Milano e altrove si vende il pane di Altamura di Puglia. Lo compri e dici: “è buono e soffice”. Il giorno dopo è una pietra.
Non ci sono più maestre, non ci sono più allieve
Il povero pane trasportato su gomma, da una località all’altra, nella notte, come un ladro, conservato nel freezer, affettato, tagliato, messo sotto vuoto vietato nelle diete dimagranti, spesso sostituito da grissini e crakers, non ha più identità, anche se sul desco non manca mai. Io non sono nostalgica dei tempi passati; le case oggi non sono attrezzate per quel tipo di lavoro, la tradizione si è persa: non ci sono più maestre, non ci sono più allieve.
Un’ultima cosa da dire, al termine di questa lunga trattazione: ”Pane, ricchezza della mensa, tu non hai più casa!”.
* Maria Delli Quadri, molisana di Agnone (“il paese delle campane e della ‘ndocciata”, in provincia di Isernia), professoressa di lettere, oggi in pensione, ama la musica e la lettura. Cura un’interessante rubrica su Almosava.it – da cui è tratto questo articolo, titolo originale Il pane – con cui volge lo sguardo sul mondo dell’Alto Sannio (area oggi divisa in due regioni, Abruzzo e Molise, e quattro province) e nascono pensieri e ricordi.
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