La Torre Campanaria
I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre
di Vincenzo Colledanchise
19 novembre 2018
La vita del paese veniva scandita dal suono delle campane che segnavano i momenti più solenni della vita dei paesani.
A volte si usavano anche per allontanare i temuti temporali.
Salendo verso la cella campanaria si udivano i forti rintocchi metallici del grande orologio della torre campanaria, azionato dai pesi che pendevano lungo la tromba della sconnessa gradinata del campanile.
Una volta chiusa la pesante botola di ferro, posta alla base della cella campanaria, era competizione continua tra i giovanotti nel volersi impadronire della corda del campanone per portarlo nella posizione più estrema della corsa.
Il suono acuto eppur gentile della campana grande, unitamente a quello della media più dolce e squillante, inframmezzato dalla “rimanella” della piccola, offrivano contemporaneamente un concerto meraviglioso, che era il ricordo più nostalgico degli emigrati toresi.
Una sola volta durante l’anno tacevano, quando venivano “legate” durante la settimana santa, sostituite dal rumore stridulo della “tritacca”, un antico attrezzo di legno sul quale i ragazzi facevano rimbalzare simultaneamente dei manici di ferro.
Sul torrione del campanile fino a qualche decennio addietro era possibile ammirare un grande albero di mandorlo che aveva il compito di annunciare ai primi tepori di febbraio l’incipiente primavera.
E a primavera quel torrione si riempiva di centinaia di rondini che gioiosamente spiccavano il volo intorno al campanile insieme ai piccioni.
di Vincenzo Colledanchise