• 17 Aprile 2019

Pensieri molisani sulla Settimana santa

“La chiesa è piena di fedeli convocati da crepitacoli, tretacche, raganelle e tip-tap dei monelli schiamazzanti per tutti i vicoli”

di Vincenzo Di Sabato (da forchecaudine.com)

17 aprile 2019

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Pasqua càpita in aprile in questo 2019, nel mese più generoso di promesse. E arriverebbe – normalmente – con quei ritmi primaverili capaci di infrangere la lunga solitudine rifilata quest’anno dal prolungato inverno e dalla persistente instabilità meteorica. La festa più grande dei cristiani è immaginata anche per smentire la terra morta, per infondere vigore alle radici agonizzanti, nutrire i tuberi rinsecchiti, e renderli complici della auspicabile immane incursione e per acclamare finalmente il pieno rinascere della natura. 

Seppur con un sol raggio di sole, la Pasqua porta sempre lo stupore della terra, stregandola con onde di colori che i trilli degli uccelli festeggiano sonoramente, segnalandoci che davvero sta per accadere qualcosa di serio. Sta irrompendo insomma la Grande Settimana, chiamata dalla Chiesa la Settimana Santa. E’ grande perché la più importante della storia; è Santa perché nel mistero del Triduo pasquale, riluce la perfetta glorificazione del Padre, compiuta con l’immolazione e la risurrezione del Figlio. E’ il centro e il culmine di tutto l’anno liturgico che prorompe il – Giovedì Santo – con la Messa vespertina nella Cena di Gesù, memoriale della prima Messa celebrata da Cristo, sommo ed eterno Sacerdote, e della Prima Comunione della storia amministrata agli Apostoli. Rito solcato suggestivamente anche dall’umile gesto di Gesù che lava i piedi ai discepoli e che illumina il vero potere del servizio e il precetto della carità fraterna. Ma noi vecchi, custodi dei tempi, siamo suggestionati nel ricordare e raccontare l’irrevocabile significato d’una miscela di rituali, di religiosità, di fede e di paradossi riferiti al Giovedì Santo, professato prima della più grande rivoluzione liturgica preconciliare, promulgata da Pio XII nel 1956. 

La Messa in Coena Domini era celebrata al mattino e, da essa, scoppia ancora nella mia mente il Kyrie e il Gloria del classicismo settecentesco e il canto possente del “Pange Lingua” vibrato dai cantori della ex Confraternita del Sacramento di Guardialfiera, durante la reposizione del Santissimo nel Sepolcro. “Sepolcro”! Oh che impropria e infelice definizione del luogo fastosamente allestito invece per l’adorazione solenne del Cristo, vivo e vero, presente nell’Eucarestia, e non del Morto o del “Servo sofferente” e abbandonato o imprigionato prima che salisse il Golgota! Si credeva così. Forse perché ingannati dall’atto austero del celebrante che ponendo le Sacre Specie dentro l’urna, la chiudeva rigorosamente a chiave, così come i gendarmi fanno per un malfattore. L’Università delle Generazioni di Agnone, mi ricorda il concetto e l’antica tradizione di sotterrare nel buio chicchi di grano che, marciti, rispuntavano in piantine lucenti degne di adornare i Sepolcri al Giovedì Santo. “Dal grano alla vita eterna” osserva Salvatore Mongiardo, filosofo di Soverato. “Attorno al grano – egli afferma – si sono sviluppate credenze pagane come quella legata a Iside che, alla maniera delle piantine risorte, fa risorgere dall’oscurità Osiride a vita eterna”. Ma evidenzia nel grano rinato anche valori di convivialità e di amicizia. Croci velate, statue coperte da drappi violacei dentro le nicchie nel pomeriggio del Giovedì Santo. Oscurità diffusa nelle navate della nostra antica Cattedrale. Gli Apostoli in camice bianco sorvegliano il Sepolcro, illuminato dalla luce fioca dei ceri. Era così prima del nuovo “Ordo”. Percezioni di mestizia. La chiesa è piena di fedeli convocati da crepitacoli, tretacche, raganelle e tip-tap dei monelli schiamazzanti per tutti i vicoli. Clero e cantori disposti sul presbiterio. Inizia l’Ufficio delle tenebre. Tre Notturni, ciascuno strutturato da tre salmi che in tempo di passione non finivano in Gloria. Tre lamentazioni del profeta Geremia; tre “lezioni” di Sant’Agostino; tre epistole di S. Paolo intervallate dalla melodia severa di responsorii gregoriani. Ai piedi dell’altare svetta possente un candelabro triangolare con nove candele discendenti, corrispondenti ai nove salmi dell’Ufficio Divino. Vengono spente, una alla volta, a conclusione d’ogni lauda. Sicché il tempio è sempre più oscuro. L’ultimo cero, il decimo, infisso al vertice del “Triangolo di luce” (Giovanni Mascia) lo innalzava al cielo un chierico al termine del Benedictus, quasi a porgere all’assemblea l’invito dell’ “andate in pace” per amare e servire il Signore. La sera è avanzata. La chiesa è un’altra volta gremita per la “Missione”. Canti penitenziali attorno al sepolcro, piuttosto che inni eucaristici. Un quaresimalista scala il pulpito a scandire con accenti strappa cuori, gli ultimi istanti di vita del Cristo: le sue “Sette Parole”. Frasi brevissime soffiate dalle labbra di Gesù flagellato e sanguinante che, per densità, suscitano interrogazioni e commozioni. Sulla predella dell’altare, tra due fiaccole, è elevata e commentata la Croce con i segni e gli strumenti per la crocifissione. Poi l’atto di ostensione della statua appassionata dell’ “Ecce Homo” sbeffeggiato, con la canna fra le mani legate, e la corona di spine. 

 Ero assai giovane al Giovedì Santo del 1955. 

Strade tortuose, allora, e sconquassate. Chi ti dava i telefoni. Incipiente e inefficiente la teleselezione. Zia Gemma – barista del paese, rara utente allora della “Timo” – mi cerca impazzita: “devi contattare subito Clelia D’Inzillo, capo-redattrice d’un quotidiano romano”. Attraverso la prenotazione nazionale del n° 10, la raggiungo miracolosamente a volo e mi esorta ad affacciarmi in serata sul territorio a valle di Colletorto San Giuliano: “Ho appurato che stasera lì c’è qualcosa di nobile e irripetibile”. 

Parto con la lambretta di Raimondo pilotata da Antonio Cieri, di tre anni più piccolo e più incosciente di me. Eccoci sul ponticello di “Vallone Grande”, frontiera fra le due comunità. Ascolto i sorrisi della natura. E mi incanta l’amenità e lo sciacquio fievole delle cascatelle “S. Lorenzo”, in territorio di San Giuliano. Contemplo gli alberi secolari degli ulivi contorti, genuflessi, argentati dal fascino del plenilunio in quel Giovedì e, digradanti anche dai declivi di Colletorto. E dentro l’evangelico scenario molisano, mi accosto idealmente al Monte degli Olivi da cui ebbe inizio l’entrata trionfale di Cristo a Gerusalemme. Penso al Getsemani, all’Orto degli Ulivi sul Cedron dove si consumò il tradimento del Giovedì Santo. Quanti ulivi e quanto grondare d’olio in questo Giorno. Penso agli oli Santi della Messa Crismale e a quelli aromatici di Nicodemo per la sepoltura del venerdì. Tanti olivi e tanti oli – rifletto – forse per rimarcare l’Unto, il Messia promesso all’umanità. 

 La valle intanto si riempie di mistero; s’affolla di qua e di là di penitenti scesi da Colletorto e da San Giuliano. Fra i due paesi ci sarà a momenti “lo Scambio delle Croci”. Come dire: pongo sulle tue spalle il carico della mia croce e assumo la tua sofferenza. Ti do il mio silenzio e prendo la tua solitudine. Contraccambio di vessillo senza misura, senza rimpianti, senza inganni. Rinnego me stesso e abbraccio con te: ospitalità, fedeltà servizio, pazienza. In mezzo a questo ripetitivo tiremmolla, ad uno dei due portatori di Croci, sfugge il nomignolo più infamante per l’altro: “Cueccelò”! E l’ingiuriato ribatte: “Saracé!” E via. Non c’è più regola di fratellanza. S’infiamma il tafferuglio. Più ebbri, lì, che ragionanti. Insulti, urla, scazzottate. Popolane, bardate di vedovili gramaglie, finiscono a tiracapelli, a fiadoni e ciambelle in faccia. Batoste a colpi di croci. Fischia un sasso. “Scappiamo Vincé”, mi borbotta impaurito Antonio Cieri, Fortuna che lo scooter era ad un passo. Arriviamo a Colletorto. Don Angelo Maesa, il parroco, aspetta in chiesa la compagnia dei pellegrini di San Giuliano. Altrettanto, sta facendo don Luigi Mascia per quelli di Colletorto. Manco mezz’ora e si ode già uno straziato “Perdono mio Dio”. I fedeli di S. Giuliano percorrono ammansiti e ginocchioni la Chiesa di Colletorto. E’ la follia della Croce; il soprassalto del bene di un Giovedì Santo che, anche dopo 63 anni, lascia una cicatrice di eterno nell’anima.

 

di Vincenzo Di Sabato (da forchecaudine.com)

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