Il Mietitore
«Ridare voce alle campagne, non per tornare all’agricoltura dei nonni, ma per rimettere in valore le vere risorse del territorio»
di Rossano Pazzagli (da La Fonte, maggio 2019)
6 maggio 2019
Dobbiamo ridare voce alle campagne, non per tornare all’agricoltura dei nonni, ma per rimettere in valore le vere risorse del territorio, per attrarre giovani e imprese, per produrre cibo di qualità e per costruire un paesaggio più bello. Il Molise è stato a lungo una regione di pastori, diventata sempre più agraria nel corso dell’età moderna: agraria e in particolare cerealicola. A una economia basata sulle pecore e sul pascolo, a partire dall’800 si è gradualmente affiancata e sostituita la coltivazione del grano e le più circoscritte piantagioni dell’ulivo e della vite. Poi le campagne molisane hanno subito l’emigrazione e l’abbandono, vittime non predestinate di un modello di sviluppo che ha privilegiato l’industria e la città, il Nord e le coste. Non era un destino, appunto; sono state le scelte politiche e il prevalere dell’economia capitalistica a marginalizzare una terra che era stata teatro di antiche civiltà. Eppure – aveva scritto Giuseppe Maria Galanti verso la fine del ‘700 – “l’agricoltura è quella nobile arte senza la quale nessuno esisterebbe”. I prodotti della terra sono essenziali alla vita e attorno a ciascuno di essi si è sviluppato il progresso umano.
Prendiamo l’esempio del grano, il principale elemento della trinità alimentare del Mediterraneo insieme alla vite e all’olivo. Fin dai secoli scorsi la cerealicoltura estensiva era una delle forme dell’agricoltura molisana, in particolare della collina litoranea compresa fra il Trigno e il Saccione, che interessava quindi il Basso Molise fino a Larino e a Santa Croce di Magliano. In alcune aree, come ad esempio quella di Melanico, al confine con la Puglia, la coltivazione del frumento è stata così praticata che ha finito per contrassegnare il paesaggio in modo indelebile. Nell’800 e nel primo ‘900 essa era caratterizzata dalla persistenza di tecniche tradizionali, dalla sopravvivenza del maggese e da una meccanizzazione a ondate, in relazione ai processi di emigrazione del primo ‘900 e degli anni ’50 ’60.
Il ciclo di produzione dei cereali occupava tutto l’anno, era articolato in diverse e impegnative operazioni (dalla semina alla mietitura e alla trebbiatura) e richiedeva una elevata quantità d manodopera. La raccolta, in particolare, richiedeva molte operazioni labour intensive tra loro concatenate, mentre con la meccanizzazione si passerà poi ad un’unica operazione concentrata e capital intensive, rappresentata nel suo esito finale dalla mietitrebbiatrice. Ma questa macchina verrà adottata solo nella seconda parte del secolo XX. Ai primi del ‘900 la Cattedra ambulante di agricoltura di Campobasso cercava di favorire la meccanizzazione della raccolta dei cereali organizzando prove pubbliche, mostre e depositi di macchine agrarie, come si legge nell’Annuario del 1903. Nel 1909 nel solo Circondario di Larino si contavano 263 mietitrici e 368 falciatrici, che erano del tutto assenti pochi anni prima. Si trattava della prima ondata della meccanizzazione delle campagne, che rallentò nel periodo della prima guerra mondiale. Secondo una indagine della stessa Cattedra di agricoltura, effettuata nel 1917, nell’intero Molise le “macchine da raccolta” erano 688, distribuite in 31 comuni: 167 falciatrici, 48 mietitrici semplici, 395 mietitrici legatrici, 78 trebbiatrici. Come sappiamo uno degli sbocchi principali del processo di meccanizzazione agraria, intesa come motorizzazione di molte operazioni, è rappresentato dalla affermazione del trattore, prodotto negli Stati Uniti fin dalla fine dell’Ottocento, ma che si diffonderà realmente a partire dagli anni ’40 del ‘900. In Europa, dove la popolazione era più numerosa e la manodopera più abbondante, la sua introduzione fu ancora più lenta, tanto che nel 1950 ben l’85% della forza motrice agricola era ancora costituito da buoi e cavalli.
Per l’Italia fu l’area emiliana a lanciare la storia del trattore (con il famoso “Landini”). Con ritmi ancor più rallentati, la mietitrebbia, che aveva conosciuto una prima sperimentazione in America intorno al 1840, trainata da una squadra di cavalli e poi da una macchina a vapore, si diffonderà in Europa soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Nella seconda metà del ‘900 le macchine mietitrici prima e la mietitrebbiatrice poi vanno a sostituire le folte squadre di mietitori che dalle montagne del Molise si spostavano verso Melanico e le Puglie. La figura del mietitore che scende verso il Tavoliere è rimasta incisa nella memoria: arrivava già stanco, dopo giorni di cammino, chiedeva da mangiare (“sacco vuoto non sta in piedi”, si diceva), il padrone glielo concedeva e una volta placato l’appetito lo sollecitava a prender la falce, a volte ricevendo in cambio la battuta dell’arguto contadino, che cercava d prolungare almeno un po’ il riposo: “sacco pieno non si piega”. Era un lavoro duro e concentrato nella stagione più calda, su quei campi di grano che sembravano non finire mai. Un lavoro che produceva cibo e paesaggio: due funzioni che l’agricoltura odierna deve continuare ad assolvere combinando l’innovazione e i saperi tradizionali, la qualità del prodotto con i diritti dei lavoratori, compresa l’arguzia del mietitore.
di Rossano Pazzagli (da La Fonte, maggio 2019)