La meta di paglia
I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre
di Vincenzo Colledanchise
10 settembre 2019
Una volta si utilizzavano le aie per battere e ventilare il grano della raccolta. Con la comparsa delle prime trebbie, si pose fine a quel lavoro infernale che richiedeva sudore e tempo infinito.
Con le macchine trebbiatrici, azionate tramite lunga cinghia di cuoio da un trattore, si otteneva senza molta fatica sia il grano sia il prezioso scarto, la paglia che veniva allontanata dalla macchina mediante il lavoro manuale di un addetto, munito di forca.
Un gruppo di contadini, che entrava in azione a trebbiatura finita, sistemava il gran mucchio di paglia informe innalzando a regola d’arte la meta, che era un vero e proprio capolavoro.
Il prelievo della paglia andava fatto sempre dalla parte che guardava a sud, al fine di non permettere alla bora di danneggiare con l’infiltrazione delle acque l’interno della meta.
La paglia era necessaria a tutti i contadini per le “lettiere” degli animali ricoverati nelle stalle. Di paglia si rifornivano quotidianamente anche i due fornai del mio paese per alimentare il fuoco dei forni .
Uno di essi era mio padre che, credendo di far vita migliore, aveva rilevato nel 1950 il forno di San Rocco. Però pagavano in pochi e solo col pane.
Mio padre il 13 giugno 1950 fu graziato da San Antonio, raccontava. Recatosi a prelevare la paglia, la meta franò e mio padre vi rimase sotto per più di un’ora. Pensava di soffocare, quando, gridando aiuto al Santo, improvvisamente fu libero.
Il giorno dopo si liberò anche del forno.
di Vincenzo Colledanchise