• 3 Ottobre 2019

Il paradosso della forbice

Il problema del consumo di suolo in Italia

di Rossano Pazzagli (da La Fonte, ottobre 2019)

3 ottobre 2019

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Continuiamo a consumare suolo, alterare il paesaggio, insidiare l’ambiente. Basta guardarsi intorno e riflettere su quanto sta avvenendo nelle singole regioni o province per rendersi conto delle ferite che abbiamo inferto al territorio e ai danni che stiamo facendo alla nostra stessa economia. I dati lo confermano e sono drammatici: con un aumento del 180% di consumo di suolo dagli anni ’50 ad oggi, la superficie naturale e agricola in Italia si riduce ogni anno, tanto che il nostro paese ha un livello di consumo di suolo tra i più alti d’Europa. Secondo i Rapporti ISPRA degli ultimi anni il suolo consumato è oltre il 7% della superficie, mentre la media europea è poco più del 2%. Sono dati che mostrano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole nei campi, la perdita di un confine identitario che permetteva un dialogo reciproco tra città e campagna. E anche la produzione di cibo, l’economia e il lavoro ne risentono negativamente: non di rado le zone con più capannoni e cemento sono anche quelle con più disoccupati o con più lavoro precario. La situazione non è uguale in tutte le regioni: le più colpite sono quelle del Nord (Lombardia, Venete, Emilia Romagna, Liguria e Friuli).

Sepolti dall’asfalto e dal cemento per costruire strade, case, centri commerciali e capannoni industriali spesso rimasti vuoti, se ne sono andati negli ultimi trent’anni campi, pascoli e altri spazi rurali a vantaggio di uno sprawl che ha definitivamente rotto i confini tra l’urbano e il rurale, debordando nella campagna. Tra le regioni più virtuose, cioè che hanno consumato meno suolo in percentuale, ci sono il Molise, la Sardegna e la Basilicata, afflitte purtroppo da un’altra seria patologia: lo spopolamento.

La cementificazione e l’abbandono, che apparentemente sembrano due fenomeni opposti, hanno determinato in modo convergente, dal Nord al Sud, una progressiva riduzione della superficie agricola, stravolgendo spesso gli assetti territoriali e paesaggistici. Dal 1956 al 2000 il consumo del suolo è passato da 8.700 a più di 21.000 chilometri quadrati, con un impegno pro-capite balzato da 170 a 340 metri quadrati; dopo il 2000 la situazione è ancora peggiorata, come dimostrano i rapporti annuali dell’ISPRA, l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione dell’ambiente. 

Che l’Italia stia perdendo terreni agricoli in un trend negativo e continuo è ormai un dato di fatto inconfutabile. Dagli anni ‘70, la superficie agricola utilizzata (SAU), che comprende seminativi, orti, arborati e colture permanenti, prati e pascoli, è diminuita di un terzo, da quasi 18 milioni di ettari a circa 11. Si tratta di un processo che non nasce oggi, che si è avviato concretamente negli anni ’60, in concomitanza con il boom economico. All’inizio ha preso la forma della costruzione di nuovi edifici all’interno e intorno ai centri urbani, snaturando la loro immagine. La pianificazione urbanistica è arrivata tardi (dove è arrivata) a regolare e contrastare questo fenomeno, che tuttavia era spinto dalla crescita demografica ed economica. Quindi si poteva capire, in un certo senso e in quel dato contesto. Poi la popolazione ha smesso di crescere, ma il consumo di suolo è continuato senza sosta. A differenza di quanto era avvenuto negli anni ’60 e ’70, il successivo processo di edificazione della campagna (dalle lottizzazioni, alle zone artigianali e commerciali, alle residenze turistiche), intensificatosi a cavallo del 2000, si è svolto essenzialmente entro un quadro di stasi o addirittura di declino demografico e di rallentamento della crescita economica. Ciò significa che si è consumato più suolo quando ce n’era meno bisogno, come dimostrano i grafici relativi a molti comuni: anche quando la popolazione diminuisce, aumenta il consumo di suolo, generando il paradosso della forbice con una linea che scende e l’altra che sale, meno popolazione, più consumo di suolo. Una forbice che ha tagliato risorse e opportunità di sviluppo, il contrario di quanto vanno dicendo i propugnatori di una modernità stanca e di un illusorio e spesso ideologico sviluppismo.

Il consumo di suolo ha significato in primo luogo alterazione del paesaggio, frattura del consolidato equilibrio tra città e campagna, nuovi costi ambientali in termini di gestione delle risorse naturali, ridefinizione delle identità sociali. Ne derivano danni all’agricoltura e al turismo, che invece dovrebbero rappresentare il primario orizzonte di rinascita per i piccoli paesi e le aree interne. Ci sarebbe bisogno di una inversione di rotta. Una sensibilità sempre più diffusa nella società spinge nella direzione di uno stop al consumo di suolo e anzi di una sua riduzione, come dimostrano i comitati nazionali e locali, sempre più diffusi, per salvare il paesaggio in nome della Costituzione italiana, che fissa tra i principi fondamentali la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione (articolo 9). Ciò deve costituire la base per ragionare su un nuovo modello di sviluppo, che parta dalle vocazioni autentiche di ogni area o regione, a partire da quelle che hanno ancora una buona dotazione di suolo, dalle aree interne e meno sviluppate, dove si possa attivare il patrimonio territoriale, mettere a frutto i valori storico-ambientali e praticare la partecipazione sociale, con l’obiettivo di superare quell’economia speculativa che si è progressivamente sostituita all’economia produttiva alimentando il paradosso della forbice, generando degrado e disoccupazione, spaesamento e perdita di fiducia. 

di Rossano Pazzagli (da La Fonte, ottobre 2019)

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