• 7 Gennaio 2020

Il ritorno dei contadini

Rivincita delle campagne come processo in grado di ridare dignità sociale all’agricoltura

di Rossano Pazzagli (da La fonte/Gen20)

7 gennaio 2020

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L’Italia deve molto agli agricoltori. Dall’agricoltura e dallo stretto legame instauratosi sul lungo periodo tra città e campagna deriva gran parte del patrimonio territoriale (culturale, ambientale, produttivo, sociale) di questa bella e sciagurata penisola: la sua economia, il suo paesaggio, le sue differenze regionali, la sua vita democratica e perfino la sua celebrata vocazione urbana. Senza l’agricoltura e i connessi flussi di cibo, di energia e di cultura tra mondo rurale e realtà urbane, le città non avrebbero potuto crescere e svilupparsi. Aggiungiamo il mare e le montagne e ci accorgiamo che questi caratteri ambientali di fondo sono stati i protagonisti indiscussi, con l’attività dell’uomo, del complesso e lunghissimo processo storico che ha prodotto una identità italiana in continua evoluzione, le fonti di quell’insieme di risorse che sono state efficacemente definite come le “felicità d’Italia” (P. Bevilacqua).

Alla metà del ‘900 l’Italia era ancora in gran parte un Paese contadino. Malgrado la prima onda dell’industrializzazione avesse posto le basi, soprattutto in età giolittiana, di un apparato industriale che aveva acuito, anziché attenuato, le differenze interne, quasi la metà della popolazione attiva era ancora assorbita dal settore primario e la politica dell’immediato dopoguerra dovete affrontare anche una “questione agraria”. Poi nell’arco di un quindicennio, tra il 1950 e il 1965, l’Italia mutò il suo volto e da paese prevalentemente agricolo divenne un paese industriale, mentre si venivano affermando stili di vita sempre più centrati sulle città e l’urbanizzazione. Per le campagne ciò ha significato una progressiva perdita di lavoratori, imprese, peso economico, superficie coltivata, dignità sociale e valori culturali. In questo senso la storia delle campagne italiane nel secondo ‘900 può essere sintetizzata in un lungo addio al mondo rurale, cioè un processo nel quale Il modello industriale, basato sulla crescita dei consumi e della produzione e il modello sociale centrato sul welfare urbano, avrebbe preso il sopravvento. L’abbandono delle campagne – noto come esodo rurale – e il mutamento del paesaggio agrario sono le espressioni più eloquenti di questa grande trasformazione, contrassegnata da una consistente riduzione del numero degli addetti e da una crescente marginalizzazione delle aree rurali, a partire da quelle montane e collinari. Contemporaneamente, la letteratura, l’arte e il cinema cominciavano a celebrare il bel mondo perduto e la malinconia per qualcosa che se ne stava andando. Il ‘900 è stato un secolo cominciato con l’agricoltura come settore prevalente dell’economia e della società e finito con le campagne abbandonate, ripiegate su se stesse, trascurate o aggredite, molto spesso ferite e talvolta derise.

Sembrava un tramonto definitivo del mondo agricolo e della ruralità italiana. Invece da un paio di decenni ci siamo accorti che il nostro Paese ha la necessità e l’urgenza di recuperare la sua dimensione rurale. All’alba del XXI secolo si è assistito a una generale rivalutazione della tipicità e della località delle produzioni all’insegna della qualità. Ciò ha dato forza, energie e speranze a tante impresse agricole vecchie e nuove, che hanno potuto inserirsi nei circuiti del food alimentando filiere corte, piani e carte del cibo, biodistretti e, in modo diffuso, una moltitudine di esperienze collegate ai temi del ritorno o della “restanza”, della sovranità alimentare, della salute e di nuovi stili di vita. Si tratta di un insieme articolato di esperienze, macro e micro territoriali, che passano dalla resistenza al modello industriale e alla mercificazione dei valori d’uso ad una proposta di «ruralizzazione ecologica», all’emergere di una “nuova questione agraria” che deve essere contemporaneamente politica e culturale. L’analisi dell’evoluzione agricola italiana dal Dopoguerra al Duemila, attraversando i terreni impervi dell’urbanizzazione e dell’industrialismo, consumando le economie, le culture, il lavoro e i valori del mondo rurale, ci consegna l’invito a riannodare i fili con la storia rurale dell’Italia e delle sue regioni. Dopo aver posto per gli anni ’60-’70 l’interrogativo sulla «fine dei contadini», in tempi recenti alcuni studiosi non hanno esitato a parlare di «ricontadinizzazione», di «ritorno dei contadini» o addirittura di rivincita delle campagne come processo in grado di ridare dignità sociale all’agricoltura e di fronteggiare le nuove e continue crisi internazionali multidimensionali. «Il mondo è migliore se ci sono i contadini», ha scritto il sociologo rurale olandese Van der Ploeg. Anche a livello italiano si è posto l’accento sui «ritorni alla terra» e perfino sulla «rivincita delle campagne», tematiche a cui sia vecchi studiosi che nuovi ricercatori hanno stanno dedicando una significativa attenzione. Sia nei paesi cosiddetti avanzati, e quindi anche in Italia, sia in quelli in via di sviluppo, si assiste così a fenomeni complessi di ritorno a un modo contadino di fare agricoltura e all’aumento dei «nuovi contadini». Il cuore di questo nuovo modello è la ricerca di autonomia dal potere ordinatore degli imperi agroalimentari, un’autonomia basata sulla mobilizzazione delle risorse territoriali nell’ambito di una ritrovata armonia tra agricoltura, società e natura. Anche l’attenzione al paesaggio, alla biodiversità e alla qualità del cibo sono elementi importanti di questo diverso modello volto a rafforzare il pilastro dello sviluppo rurale e a favorire l’emergere un’agricoltura rinnovata in grado di coniugare produzione e ambiente, locale e globale, impresa e lavoro, mercato e democrazia alimentare. (da: “La fonte”, gennaio 2020) 

di Rossano Pazzagli (da La fonte/Gen20)

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