Castelnuovo a Volturno, frazione di Rocchetta
Protagonista e vittima della ineluttabilità della storia
di A. C. La Terra
26 febbraio 2021
Giuseppe Martino in maniera sbrigativa (Gazzetta della Provincia di Molise del 2 novembre1873) conclude che fu questo paese, forse, l’ultimo fatto edificare dai monaci dell’insigne Badia di San Vincenzo a Volturno, perché detto Castelnuovo.
La ricerca di notizie sulle origini di Castelnuovo dalle fonti epigrafiche ha dato esiti assolutamente negativi.
Il “Chronicon Vulturnense”, salvo un controverso documento di epoca tarda che riferisce di una vendita di terreni che l’Abbazia di S. Vincenzo avrebbe fatto nel 1383, non dice nulla, anche se non vi sono dubbi che la formazione del nucleo più antico di Castelnuovo sia da collocare nel periodo dell’incastellamento dell’intero territorio dipendente dall’antica abbazia nel X secolo.
Neppure di grande aiuto appariva l’esame diretto del suo impianto urbano, profondamente danneggiato non solo da un incredibile cannoneggiamento compiuto dagli Americani al solo scopo di realizzare un filmato a conclusione della seconda guerra mondiale, ma anche da uno sciagurato e colpevole disinteresse locale alla sua conservazione.
Tuttavia proprio il suo nome particolare e quanto rimane degli edifici più antichi possono aiutarci a capire qualcosa della sua storia urbana portandoci alla conclusione che l’aggettivo “nuovo”, aggiunto a “castello”, denoti semplicemente che in quel luogo vi era un nucleo più vecchio che in un certo periodo dovette essere rinnovato.
Orbene dall’analisi delle poche murature ancora sopravvissute possiamo ragionevolmente ritenere che la storia del piccolo nucleo urbano debba essere distinta in due fasi. La prima di epoca longobarda relativa alla creazione di un nucleo estremamente modesto corrispondente ad un sistema difensivo, assolutamente piccolo, arroccato nella parte più alta in corrispondenza di quella zona che ancora oggi si chiama “Castello”.
La seconda relativa alla creazione di una nuova struttura difensiva con la costruzione di un secondo castello, più in basso, coincidente con ciò che rimane del cosiddetto Palazzo Battiloro, ed un impianto planimetrico urbano che nella sostanza corrisponde a quello definito dall’attuale cinta muraria.
Nella parte più alta del paese oggi rimangono solo deboli segni delle strutture più antiche, ma la particolare asprezza del suolo ci fa immaginare che i coloni di S. Vincenzo a cui fu affidata questa parte del territorio intorno alla metà del X secolo, abbiano deciso di impiantare il primo nucleo difensivo in questo luogo per utilizzare gli spuntoni di roccia che caratterizzano l’area e, soprattutto, per godere di una difesa naturale che corrisponde alla parte scoscesa del versante occidentale.
Del castello, oltre il toponimo, non vi sono elementi sufficienti per ipotizzare quale sia stato il suo primitivo impianto, però quanto rimane di due piccole torri circolari, molto vicine l’una all’altra, sul lato occidentale, portano a ritenere che, non essendo esse dotate di basamento a scarpa, facessero parte di un sistema articolato di difesa riorganizzato in qualche modo in epoca normanna.
E’, infatti, abbastanza consolidata la tesi che in epoca longobarda, e più particolarmente nel X secolo, nel territorio vulturnense, le torri avessero una conformazione quadrangolare e che solo nella seconda parte della fase normanna (ovvero intorno alla metà del XII secolo) siano comparse torri circolari, comunque prive di scarpa.
Non siamo in grado di confermare se queste due piccole torri fossero parte di un recinto murario o se piuttosto costituissero gli elementi di una struttura castellana, ma la loro piccola dimensione evidenzia un carattere completamente diverso dalle altre torri della cinta urbana più bassa e che noi riteniamo di epoca successiva.
Per stabilire l’epoca della costruzione del novo castello a questo punto dobbiamo far riferimento all’unico documento di cui disponiamo, ovvero il documento relativo alla vendita da parte del monaco Giovanni “de Area”, nel 1383, di alcuni terreni dell’abbazia per ricavare denaro per la ricostruzione del monastero di S. Vincenzo incendiato da truppe ribelli nella seconda metà del XIV secolo.
Anno Domini 1383, regnante serenissimo domino Karolo III, inclitissimo rege Sicilie, frater Ioannes de Area nonnulla predia vendidit pro reparatione monasterii Vulturnensis, penitus combusti per fideles et rebelles sancte Romane Ecclesie et sacre regiae maiestatis.
Tempore Ferdinandi regis cuidam Camillo Pandone consiliario regio fuerunt vendita ab ipso rege Ferdinando infrascripta castra abbatiae Sancti Vincentii, tamquam ad regiam Curiam devoluta et pertinentia, videlicet: castra Sancti Vincentii, Scapuli, Castilioni, Piczoni, Castri Novi, Roccette, Collium et Cerri habitata, nec non terras Sancti Pauli, Iannini et Vallis Porcine inhabitatas, pro pretio ducatorum sex millium de carlenis argenti, reservato annuo censu actuaginta florenorum auri pro abbate Sancti Vincentii.
(Nell’Anno del Signore 1383, quando regnava il serenissimo re Carlo III, illustrissimo re di Sicilia, frate Giovanni di Area vendette non poche proprietà per riparare il Monastero Volturnense incendiato quasi del tutto dagli infedeli e ribelli di Santa Romana Chiesa e della sacra maestà regale. Al tempo di re Ferdinando furono venduti dal medesimo re Ferdinando a un certo Camillo Pandone consigliere regio i seguenti Castelli dell’Abbazia di S. Vincenzo, come se fossero devoluti e pertinenti alla Curia regia, precisamente i castelli abitati e non di S. Vincenzo, Scapoli, Castiglione, Pizzone, Castelnuovo, Rocchetta, Colli, Cerro e le terre disabitate di S. Paolo, Giannino, e Valle Porcina, al prezzo di seimila ducati di argento, riservandosi l’abate del monastero il censo annuo di ottanta fiorini d’oro).
(Chronicon Vulturnense, ed. Federici, vol. III p.121)
Va ricordato che l’anno 1349 per la storia di S. Vincenzo al Volturno e per quella della contermine Montecassino costituisce una data assolutamente importante perché le cronache riferiscono di un terremoto che avrebbe distrutto dalle fondamenta tutti gli edifici di questo vasto territorio che va dal Lazio meridionale fino a tutto il Molise.
Un terremoto che non solo distrusse gli edifici, ma che fece anche strage di persone fino a determinare una crisi che ebbe riflessi anche nella organizzazione dei due monasteri. In assenza di altre notizie ci sembra indiscutibile che il 1349 debba essere considerato l’anno dopo il quale si sia ricostruito il nuovo nucleo urbano e che nel 1383, quando Castelnuovo fu tenuto a contribuire alla ricostruzione di S. Vincenzo incendiato da truppe angioine, il nucleo già era stato ricostruito.
Carlo di Durazzo nel 1381 era sceso in Italia dall’Ungheria assalendo con le armi la Penisola, confortato da papa Urbano VI, appartenente alla famiglia napoletana dei Prignano, che lo consacrava come re di Napoli il 2 giugno 1381 spodestando la regina angioina Giovanna.
Questa, due giorni dopo, come contromossa si affrettava a nominare proprio erede Luigi d’Angiò, fratello del re di Francia, e lo sollecitava a scendere in Italia.
L’anno seguente il Durazzo, incoronato da Urbano VI con il nome di Carlo III, si incontrava con l’abate di Montecassino e, dopo aver saccheggiato S. Germano e S. Pietro Infine, poneva l’assedio a Napoli che era difesa inutilmente da Ottone di Brunswick, quarto marito di Giovanna.
Luigi d’Angiò partiva dalla Francia con 12.000 cavalieri per venire a Napoli a prendersi il regno usurpato da Carlo III.
Il 17 luglio di quello stesso anno egli arrivava in Abruzzo dove, come ricorda Michele Camera, riusciva a riunire i baroni filo-angioini particolarmente irritati nei confronti del Durazzo. Tra gli alleati di Luigi vi furono anche Jacopo Caldora e Amedeo VI, il Conte Verde, che finirà i suoi giorni l’anno seguente a Campobasso.
Luigi d’Angiò mosse alla volta di una Napoli. La marcia di avvicinamento interessò l’alta valle del Volturno dove il monastero di S. Vincenzo fu incendiato perché, come Montecassino, si era dichiarato fedele ad Urbano IV.
I toponimi di Castelnuovo, peraltro sopravvissuti anche nelle moderne carte catastali, sono utili per farci capire che il nuovo sviluppo urbano del XIV secolo si sia impiantato all’interno di una nuova cinta muraria che aveva una piccola area di congiunzione con il nucleo più antico che corrisponde a quel piccolo slargo che ancora si chiama Piazza Portella.
Tale portella nella fase urbana più antica costituiva la porta da basso per accedere al piccolo nucleo longobardo, ma con l’ampliamento angioino venne a costituire il punto di raccordo del nuovo insediamento che andò ad occupare una superficie più che doppia di quello preesistente.
Coloro che si occuparono di pianificare l’intervento ebbero cura di utilizzare come difesa naturale le balze che si affacciano sulla vallata ritenendo inutile collocare in quella parte alcuna torre di difesa. Diversamente fecero nei punti di più facile assalto dove la cinta muraria fu intramezzata da non meno di 5 torri circolari con basamento a scarpa e almeno una porta attrezzata per la difesa attiva.
Non è da escludere che questa porta, che oggi si affaccia su Piazza Roma, avesse un sistema articolato di difesa e che fosse munita anche di ponte levatoio. Gli stipiti del portale a tutto sesto e le pareti interne del supportico non permettono di capire come funzionasse il sistema, ma certamente le tracce di ricorsi orizzontali mantenuti in vista dopo un recente restauro e le tracce di una piccola finestra, ora murata, con stipiti in pietra fanno immaginare che la parte superiore fosse riservata ad un corpo di guardia.
Un’epigrafe, abbandonata davanti a quanto rimane dell’antico palazzo baronale, ricorda che la vetustà aveva provocato notevoli danni alla piccola chiesa di S. Maria di Monte Carmelo se è vero che la famiglia Marotta, come si legge dalla pietra, provvide al suo restauro: SACELLVM HOC BEATAE MARIAE VIRGINI DE MONTE CARMELO SACRVM DE IVRE PATRONATVS VETVSTISSIMAE AC PERILLVSTRIS FAMILIAE MAROTTA PASCHALIS MAROTTA DECIMVS A NOBILI HECTORE BARO QVARTVS DVX CASTRINOVI AC CERASOLI ANTIQVITATE COLLABENS RESTAVRANDVM CVRAVIT A. D. 1801
Da Castelnuovo, posta su macigni orrorosi comunemente colà chiamati marri, come sottolinea Giambattista Masciotta, si parte per straordinarie escursioni sui monti delle Mainarde, penetrando nel Parco Nazionale d’Abruzzo che comprende anche questa parte del territorio molisano.
(Franco Valente Castelnuovo, in Il Cervo 2007)
di Franco Valente – fb