La strada perduta
Quella del Molise è una strada bella e perduta, che purtroppo non è solo una metafora
di Rossano Pazzagli
2 marzo 2021
Arrivare in Molise è sempre stato difficile, ci vuole tempo e pazienza. Così, sono stati i molisani ad andare nel mondo, spesso affrontando viaggi senza ritorno. L’emigrazione che a ondate ha investito la regione, diventando uno stillicidio che dura tuttora, è stata al tempo stesso un’opportunità e un dramma: un’opportunità individuale o familiare che in molti hanno saputo cogliere, un dramma sociale e territoriale che ha causato lo spopolamento del Molise e la crescente marginalizzazione dei suoi paesi e delle sue campagne. In tanti sono andati via e in pochi o pochissimi sono arrivati. Eppure, non è una regione povera di risorse; è povera di politiche, vittima di scelte nazionali che hanno polarizzato l’economia e la vita nelle aree centrali del paese, nelle città e lungo le coste. Politiche di lungo periodo, selettive e discriminatorie. Neanche la fiammata dei poli (o nuclei) industriali degli anni ’60 e ’70 è servita a invertire la rotta; anzi, questa strategia, concentrandosi in alcuni punti, ha finito per creare ulteriori squilibri, interni oltre che esterni. Ora che la crisi del nostro tempo – economica, sociale, politica e infine anche sanitaria – ci spinge a ripensare il modello di sviluppo, a riconoscere centralità ai territori e alle loro vocazioni, ad elaborare strategie per le aree rurali e per la ricomposizione del rapporto città-campagna, è ancor più necessario rileggere la storia per ritrovare la strada perduta.
La strada perduta è una metafora efficace del tempo che viviamo. Quella del Molise è una strada bella e perduta, che purtroppo non è solo una metafora. Le strade sono infatti malmesse, diventano lunghe e lente anche quando si tratta dei pochi chilometri che separano un paese dall’altro, il monte dal piano, l’entroterra dalla costa. Diventano impegnative, pur avendo intorno un paesaggio di una bellezza avvolgente.
C’erano una volta i tratturi, forse il miglior sistema infrastrutturale di cui il Molise abbia goduto in rapporto ai tempi, un sistema ramificato e funzionale che valorizzava i luoghi attraversati. C’erano gli approdi sul mare utili ai commerci del grano e del legname. Poi sono venute le strade ferrate della modernità, fino alle idee autostradali. Già la ferrovia rifletteva il capitalismo nascente, andando laddove si cominciavano a concentrare gli affari e la popolazione: nelle città e lungo le coste. Così il treno arrivò in Molise nei primi anni dopo l’unità d’Italia, ma solo sull’Adriatico: nel 1864 fu inaugurata la stazione di Termoli come fermata della linea in costruzione che avrebbe collegato Ancona con Lecce.
Restava il problema del collegamento con l’entroterra e con Campobasso, di come connettere le direttrici costiere con l’Italia interna fatta di territori complessi, spesso più difficili del mare da attraversare. Un anno dopo, il 15 novembre 1866, il sindaco di Campobasso Achille De Gaglia presentava al consiglio comunale una preoccupata memoria sul tracciato della ferrovia Napoli-Campobasso-Termoli, che la società costruttrice, cambiando i piani iniziali, intendeva far passare per la valle del Biferno escludendo Campobasso e i paesi del Molise. “Facendosi passare per Campobasso – si legge nella relazione – toccherebbe molti altri paesi… essendo Campobasso capoluogo della provincia e città importante, non che centro di tanti altri Comuni forniti tutti di convergente strade rotabili”. E proseguiva: “Chi godrebbe dei benefici della strada ferrata pel Biferno? Nessuno, meno la Società costruttrice…”. Il sindaco si espresse duramente contro la Società delle Ferrovie Meridionali, definita una “associazione di industrianti”, e si appellava al governo nazionale affinché costringesse l’impresa concessionaria a rispettare il tracciato iniziale.
La memoria venne approvata, pubblicata presso la tipografia dei fratelli Colitti e ampiamente diffusa. Il Consiglio comunale elesse infine una delegazione incaricata di recarsi a Firenze (allora capitale del giovane Regno d’Italia) per perorare la causa di Campobasso e del Molise “onde fosse attuata la ferrovia” seguendo il tracciato di Campobasso. Alla fine, come sappiamo, la ferrovia, inaugurata nel 1883, sarà realizzata lungo la linea Bojano-Campobasso-Casacalenda-Larino-Termoli, toccando con le sue piccole stazioni la parte più abitata e produttiva del Molise, invece che snodarsi solitaria della disabitata valle del Biferno.
Ho ripreso questo episodio perché testimonia di un approccio alla viabilità intesa come sistema che deve privilegiare l’interesse pubblico e generale, non quello privato e particolare; che deve avere l’obiettivo di mettere in comunicazione tra di loro i territori e i centri abitati, anziché pensare alle infrastrutture come frecce che tagliano il territorio senza lasciare niente, senza interagire socialmente ed economicamente con il contesto attraversato, senza diventare una rete capillare di circolazione di persone, idee e prodotti in grado far sentire ogni luogo parte di un tutto, evitare che diventi periferia, margine, isola. Privilegiare l’utilità pubblica invece della mercificazione delle infrastrutture e dei trasporti. È una lezione di cui si è perso il senso, non solo per quanto riguarda la costruzione di infrastrutture, ma anche in relazione alla cura e alla manutenzione di quelle esistente, siano esse ferroviarie o stradali. Investiamo nelle strade e nelle comunicazioni, in quelle reali e materiali, oltre che in quelle virtuali. Solo così potremmo ridare vita ai territori e infrangere i perimetri forzati delle aree interne. Approfittiamo della crisi per ritrovare la strada perduta.
di Rossano Pazzagli (da La Fonte, marzo 2021)