La Torretta
Della vera origine del manufatto che domina da secoli la vallata del Biferno non è dato sapere
di Giovanni Manocchio
26 marzo 2021
Da secoli, forse millenni, adagiata sopra uno spuntone di roccia, fiera ed austera osservavi tutto quello che anno dopo anno, secolo dopo secolo si avvicendava ai tuoi piedi, nella sottostante alta valle del Biferno. Della tua vera origine non è dato sapere. Quello è sempre stato un punto di osservazione strategico per quel territorio, e si saranno servite di te, in vesti mutate, secondo le esigenze, dal legno alla pietra, per la caccia e raccolta, segnalazione e difesa, tante civiltà e forse più di una umanità.
Ti facevano sorridere quelli che, non conoscendo civiltà, vedevi raccogliere pietre, che scheggiavano alla meglio, per tagliare le prime grezze fiorentine.
La natura loro non l’hanno cambiata in meglio; non lasciti di grandi monumenti, torri favolose o altre grandezze. Tutto è rimasto com’era, né di più, né di meno; qualche cumulo di sassi che gli esperti ritengono loro appartenuti.
Passati alla storia, ti aspettavi di osservare civiltà progredite e giuste, che lasciassero alla tua memoria gesta memorabili per nobiltà. La comunicazione allora, nelle alterne vicende belliche delle guerre sannitiche, con postazioni consimili, avvenivano con semplici fumate; non erano state ancora inventate le valvole termoioniche e la corrente non si misurava in ampere, ma dalla quantità di schiuma che l’impeto dell’acqua produceva nell’infrangersi contro le pietre, ed assistevi impotente all’orda di lupi romani che assaltavano i nostri vitelli e ti chiedevi “ma è questa civiltà, mi dovrò ricredere?”
Calmati i romani, la religione nascente sembrava apportare un barlume di giustizia e speranza per i nuovi generati; macchè, a valle passava allora una trafficata via di comunicazione che collegava importanti monasteri e vescovati, ma quelli con la stessa casacca, si pugnavano davanti a te, affinchè nelle nostre chiese si celebrasse messa con rito latino invece che con quello di Bisanzio. Punto e accapo; la fiducia nel meglio iniziava a vacillare. Le frenesie nazionaliste del ventesimo secolo lasciavano il segno anche in questa valle. Nelle notti buie quando ognuno si ristorava dalla fatica del giorno prima nel proprio ricovero, ad un tratto ti vedevamo illuminata come in pieno giorno; non era vera luce, ma la scia delle bombe che passavano sopra di te, dirette alle postazioni nemiche, e che spesso cadevano colpendo abitanti e monumenti della nostra cittadina capoluogo. La gente traslocava dal comodo letto, al giaciglio di fortuna dentro le dure e scomode botti situate in cantina, e là rimaneva fino ai chiarori dell’alba quando il fuoco d’artificio si esauriva. Ad ottobre inoltrato, soldati in ritirata, attraversato il fiume, facevano saltare i ponti alle spalle, ma questo non era servito a niente, un altro scempio inutile; i canadesi all’inseguimento, passavano anche essi all’altra sponda attraversando il fiume con i loro mezzi corazzati per niente sensibili al freddo che quella acqua limpida emanava. Non era migliorato niente, solo uno immane spiegamento di risorse umane ed economiche per arginare e riparare i danni causati da quelli che si ritenevano superiori ai consimili. La storia delle epoche si ripete, ma anche l’anno solare con le sue stagioni ripropone le medesime scene. La piena dopo le piogge ingigantisce ed agita come sempre Tifernum, che in veste di Tifeo, inonda, scardina ponti, atterra ogni cosa, e solo quando la sua rabbia si placa, la gente torna di nuovo dopo mesi a comunicare con i parenti risiedenti oltre l’altra sponda. Non si riesce più a capire qual è l’originale letto del fiume. Narratori di vecchia data raccontavano che qua, sfilavano a volte, galleggiando, paioli di rame, materassi, ad altri utensili da cucina che l’onda a monte aveva stanato dalle abitazioni di Boiano, a cinque miglia da qua. Dove prima c’erano coltivazioni, adesso è solo acqua, che col passare dei giorni man mano inizia a ritirarsi lasciando dietro pozzanghere ed acquitrini, dove pescetti e grosse trote isolate, sguazzavano. Un uomo agile e vigoroso, si arrampicava fino a te, soffiava a pieni polmoni nel suo corno, per destare attenzione di parenti ed amici oltre quell’onda, poi gridava a voce alta “noi qua tutti bene; accendete i fuochi che la cena è assicurata”.
Non sempre filava tutto per il meglio; raccontavano i nonni una antica storiella, che sembrerebbe comica, ma in realtà non lo era; quella di “Petruccio”, un ragazzo finito nel vortice dell’onda, ormai un destino legato al flutto. La madre da riva disperata gridava “Ptrucc com te sient?” e lui “Eh mà…, nnc’è tropp mal”.
Alla tua destra vedevi quelli di Castropignano che tagliavano pioppi, che nella umida piana crescevano rigogliosi, poi trasportavano i tronchi alla vicina cartiera e pensavi “ma qua nessuno legge il giornale, si racconta tutto a voce”. Vedevi sfilare carovane di giovani e giovanette, che per la fiducia reciproca che avevano l’uno nell’altro, attraversavano il ponte superstite, per andare a solidificare quel sentimento di fiducia, al santuario dell’Annunziata a li Casali.
Se alzavi lo sguardo dall’altra parte, si presentava la consueta scena del mulino Corona, che è sopravvissuto fino ai nostri giorni, dove il moto meccanico delle pale era garantito da un camino d’acqua, che separatosi dal corso principale, si dirigeva, con logica diversa, in altra direzione, e d’improvviso in forte pendenza, versava il contenuto con moto violento e fragoroso sotto i ritrecini; zio Mario al piano di sopra, azionando le leve, modulava la grandezza della farina, che polverosa calava nei sacchi, a seconda la destinazione, umana o animale. Zi Catarinella, sua moglie, donna senza tempo ed età, con rughe di espressione anzi di fatica, ben delineate fin da gioventù, rattoppava, seduta sul gradino di pietra, un sacco della farina, che un topolino malandrino aveva rosicchiato per accedere al ghiotto contenuto, e te la ridevi ricordando l’antico detto “mus farina est”.
Ma qualche decennio fa l’acqua del Biferno d’un tratto venne dimezzata, la piena non correva più; il corso era stato dirottato indebitamente verso altra terra, anche essa ghiotta della nostra acqua, e ti rendevi conto di non aver più ragione di essere, il compito come scriba di appuntare quello che in bene o male si avvicendava davanti al tuo occhio vigile nella valle, per poi renderlo noto a chi non conosceva quelle storie, veniva meno. Ti sei rattristito; la tua parabola entrava in una fase meno piacevole e qualche sconsiderato approfittando del tuo debole stato, ti ha sottratto parte dell’arco del tuo portale di accesso per abbellire il suo misero giardino senza nessuna storia importante da raccontare. In tanti che conoscevano la tua storia hanno cercato di rassicurarti dicendoti “vedrai che prima o poi ritornerà tutto come prima”. Ma il fragore del vento, che dall’alto della tua vetta cozza contro le rocce, si ricompone a valle in un suono, che come l’oracolo di te stesso, sembra dire: “acqua passata non macina più mulino”.
di Giovanni Manocchio