L’”Odissea” di Iannacone
“La pandemia ci ha reso egoisti. La mia Odissea è un invito a riavvicinarsi al mondo”
di today.it
1 aprile 2021
Dopo il successo di Che Ci Faccio Qui, il giornalista porta in tv i ragazzi del Teatro Patologico di Roma, “metafora dell’uomo moderno, in bilico tra dolore e speranza”. E si racconta a Today, dall’infanzia segnata da un “padre severissimo” all’ipotesi di una discesa in politica, fino alla missione della Rai ai tempi di Netflix
Le trasmissioni di Domenico Iannacone finiscono regolarmente tra i trend topic di Twitter, eppure lui non ha ancora aperto un profilo ufficiale. Né ha intenzione di farlo. Un paradosso che è emblema del suo approccio al lavoro: ai tempi dei «giornalisti influencer», quelli che cavalcano l’opinionismo spinto, il 59enne molisano (cinque volte vincitore del premio Ilaria Alpi), è mezzo del racconto e non fine. È piano d’ascolto e non giudizio. È storia e non sciacallaggio. È antropologia priva di ideologia. In ‘Che ci faccio qui’, ogni lunedì alle 23.15 su Rai3, e nel prossimo ‘L’Odissea’, film con i ragazzi del Teatro Patologico di Roma in prima serata venerdì 2 aprile, giornata mondiale dell’autismo, vite straordinarie di persone comuni escono dall’anonimato per diventare inchieste morali che incoraggiano la coscienza alla riflessione collettiva.
L’Odissea è metafora di vita. Quella di Dario D’Ambrosi, fondatore del Teatro Patologico, dei suoi ragazzi, affetti da disagio mentale, di noi tutti, sempre in lotta tra fragilità e forza interiore.
È un viaggio nel viaggio. È la battaglia di Dario, che combatte per tenere in vita quel posto nonostante le poche risorse a disposizione. È la storia dei suoi allievi, ognuno alle prese con una sfida personale legata alla propria difficoltà psicologica e alle restrizioni imposte dalla pandemia. È la voglia comune di dimostrare ciò che all’esterno tutti ritengono impossibile: e cioè che un gruppo all’apparenza sghangherato può incarnare alla perfezione il proprio ruolo in una rappresentazione.
Che cosa le è rimasto addosso del lavoro di questi ragazzi?
Ci sono personaggi chiave. Paolo, affetto da una profondissima depressione, interpreta Ulisse: il teatro lo sta aiutando moltissimo. Marina, bipolare, è Penelope. Poi c’è Carlo, che conosce a memoria tutte le parti di tutti. Ha ha un disturbo cognitivo insorto dopo la nascita prematura e questo ha innescato in lui una cognizione diversa e sorprendente: ricorda tutto, persino la mia data di nascita e, da lì, da quel determinato giorno, sa aprire a ventaglio tutti gli avvenimenti storici legati al periodo.
Avete girato a ridosso del primo lockdown. Altra missione non semplice.
È, infatti, anche la mia Odissea personale di professionista della tv che, tuttora, non può muoversi liberamente. Abbiamo registrato con fatica a Roma e poi l’ultimo atto ad Ostia, sul litorale romano, unico luogo possibile.
Un film, dicevamo, che è anche metafora dell’uomo moderno, sempre in bilico tra sofferenza e speranza. Lei, che è un uomo privo di retorica, in mezzo alla retorica imperante del ‘ne usciremo migliori’ come se lo immagina il mondo post Covid?
Più basico, legato a bisogni essenziali. È come se avessimo bisogno di ricominciare. A me piace molto l’idea che si possa ricominciare da una ri-alfabetizzazione emotiva. Io non ho piu emozioni.
Cioè?
Ci hanno tolto la cosa più elementare che c’è e al tempo stesso la più alta: l’emozione. L’emozione è ancora più basica dell’appetito. Nell’ultimo anno abbiamo completamente annullato la parte emozionale di noi. Ci hanno raso al suolo.
Forse perché avremmo sofferto troppo, abbiamo reagito al dolore con dissociazione.
Chiudendoci, però, siamo diventati egoisti, abbiamo sentito il bisogno di reagire e dunque di allontanarci l’uno dall’altro. La cura può essere proprio nell’ascolto. L’Odissea è invito a riavvicinarsi al mondo.
Lo vede già questo cambiamento emotivo intorno a sé?
No, ma ne avverto il bisogno in quanto uomo. Sento che c’è una istanza che arriva, la rintraccio nel pubblico che mi ringrazia per le storie che racconto. Mi scrivono che do loro speranza. È un termometro delle esigenze. Ed è segno che il lavoro arriva in profondità.
Nella prossima puntata di ‘Che Ci Faccio Qui’ indagherà la vita di Fausto delle Chiaie, un artista che tutti i giorni da 32 anni, espone le sue opere a Roma, su un marciapiede. Come arriva a scovare storie così peculiari?
Gran parte mi sono rimaste impigliate dentro in questi anni di viaggi: ho vagato e visto cose. Spesso, quando ero più giovane e lavoravo per altri programmi, mi sono appuntato una storia dicendomi che sarei tornato sul posto per raccontarla a modo mio. E così è stato.
Quali prerogative deve avere una storia per entrare nel suo ventaglio?
Voglio fare un lavoro vario, che non crei stereotipi né ossessione per un singolo argomento. È il mio obiettivo. Raccontare sempre le stesse storie annulla la vita. La libertà di racconto deve andare dalla formica che attraversa la strada all’uomo che va sulla luna. Questa è l’idea di libertà che deve arrivare anche agli altri, al pubblico.
Resta in contatto, poi, con i protagonisti della trasmissione?
Con tutti. È come se fosse un treno che aggiunge vagoni ogni volta. Le cose non terminano il giorno dopo. Io voglio incidere. Lo dico sempre: la mia tv deve incidere, deve dettare un cambiamento, anche se piccolo. Quindi mi impegno affinché anche il giorno dopo una storia possa essere risolta, laddove ci sono bisogni inattesi. C’è gratitudine reciproca.
Si definisce un “rabdomante delle emozioni”. I suoi incontri, fatti di confessioni e di silenzi, sono quasi psicanalitici. Quanta improvvisazione c’è, e quanto copione?
Solo improvvisazione. Io devo conoscere l’argomento, ma non scrivo neanche la prima domanda. Non ho una scaletta, tutto dipende dalla mia sensazione.
Ma è anche un rischio, magari non si crea empatia giusta.
Ma è il mio metro di giudizio. Quando non ho avvertito la storia pienamente, sono nate puntate che meno ho amato. L’ho percepito quasi come un limite. L’idea che, invece, qualcosa mi arrivi in maniera impattante, con improvvisazione, mi permette di raccontare con freschezza. Dal lavoro di montaggio esco straziato, distrutto.
La sua narrazione sui generis ha creato un pubblico di addicted, un po’ come Franca Leosini ha fatto con i cosiddetti Leosiners. I suoi spettatori si ritrovano ogni sera sui social, eppure lei li usa molto poco: non ha profili personali pubblici, ad eccezione di quello dedicato alla trasmissione. Fatto insolito in tempi di sovraesposizione.
Sembra un non-senso. Forse, semplicemente, è un modo per farmi concentrare sull’essere. Il rischio dei social è perdersi nell’apparire, quando invece dietro c’è la sostanza, che rende cose più vive. Li uso per lavoro, con parsimonia. Il mio profilo su Facebook non racconta cose intime: deve esserci una distanza tra ciò che ci fa apparire e ciò che ci fa essere.
Non a caso della sua vita privata si sa poco. Ricordi dell’infanzia in Molise?
Ho avuto un padre severissimo, che vedeva nel lavoro la forma di realizzazione più alta. È per questo che sono disciplinatissimo. Applico questa formazione anche nel lavoro, forse fin troppo. I miei genitori sono mancati da non molto. All’inizio, da ragazzo, pensavo che mio padre mi avesse tolto qualcosa, col passare del tempo poi è come se avessi riconvertito la cosa.
In che modo?
È come se mio padre mi avesse dato la capacità di comprendere dove c’è l’onestà intellettuale. Questo mi permette di sentirmi sempre a posto con la mia coscienza. Ora, quando vado in un posto, riesco subito a stabilire l’umanità delle persone. È come se la sentissi. Riesco subito a riconoscere chi è ‘quello che suda’.
La sua formazione è stata poi palestra d’empatia.
Sono cresciuto passo dopo passo, me la sono sudata pienamente. Faccio caso ad ogni riconoscimento che raccolgo, ai sorrisi della gente per strada.
Cosa guarda Iannacone in tv?
Non voglio sputare nel piatto in cui mangio, ma non guardo molta tv. Quella di oggi, almeno, non ispira il mio lavoro: non permette di rigenerare la mia voglia di curiosità, il mio lavoro sui documentari. Apprezzo programmi di inchiesta pura: Report, su Rai 3, per le tematiche che tratta e il rigore che usa; anche Corrado Formigli, su La7, fa una buona televisione.
La pandemia ha accelerato il boom della tv digitale come Netflix. Come deve posizionarsi la Rai, e dunque la generalista, rispetto alle nuove piattaforme? Qual è il suo augurio alla vigilia delle nomine Rai?
La Rai è la più grande azienda culturale del paese. Ha un patrimonio incredibile in termini di audiovisivo. Ha un tesoro a portata di mano ed è lì che dovrebbe attingere per la sua forza di rinnovamento.
Impossibile non citare la querelle sugli spot di Sanpa, documentario originale di Netflix, in onda con una frequenza quasi tartassante sulle reti Rai a Natale. Un effetto quasi straniante per il pubblico.
È chiaro che fa scalpore che una piattaforma esterna attinga a materiale interno per creare prodotti di qualità. La Rai dovrebbe valutarlo come via da seguire. Se penso ai tanti parallelismi col passato, ai mondi che sono cambiati… Chi puo determinare cambiamento? Chi detiene la memoria. E la Rai possiede la memoria del Paese, ne è quasi un monopolio. E allora: rendilo fruibile, inventa.
A proposito di palinsesto, la collocazione di Che ci Faccio Qui è ballerina: dall’access prime time è passato alle 20.30, poi alla seconda serata. Tante le rimostranze del pubblico. Qual è la sua fascia ideale?
Senza voler portare acqua al mio mulino, io vorrei solo che il mio programma raggiungesse più persone possibile, ma non per l’egocentrismo di fare ascolti. Il mio zoccolo duro mi segue anche a notte fonda, ma vorrei allargare la platea del mio messaggio. In passato siamo arrivati, in una fascia complicata come quella delle 20.30, al record del 7.2 per cento di share. La gente si stava abituando a vedere finalmente storie diverse.
L’Odissea è un vero e proprio film per la tv. Le piacerebbe fare cinema?
Mi è stato proposto, forse ci arriverò. È una forma artistica che mi ispira molto. L’odissea, lunga 130 minuti, è un tratto d’unione col cinema che vorrei fare. Poco fa ero in giro, camminavo ascoltando musica, quando una donna mi ha toccato la spalla e mi ha detto: ‘ogni volta che la vedo in tv, insieme a mio figlio, restiamo in silenzio, poi però il giorno dopo ci mettiamo a parlare di ciò che abbiamo visto’. È la stessa cosa che avviene al cinema. Elabori un film dopo averlo lasciato sedimentare, lo riassapori. E significa che è televisione che resta. Vorrei che nessun programma svanisse coi titoli di coda.
Nel 2019, invece, ha rifiutato l’invito del Pd a sedersi in Parlamento. Si è mai pentito?
Ogni tanto mi chiamano dalla politica. Dal Molise, in particolare, mi arrivano segnali. Io credo che, se incarni ideali, è come se le persone volessero da te una risposta per tornare ad incidere. All’epoca non l’ho fatto: in quelle circostanze, in quella situazione politica e con quegli schieramenti, ho preferito rifiutare. Ed infatti le cose sono andate come avevo predetto. Ma forse un giorno accetterò. Dovrei però fare una politica simile alla mia televisione: non deve avere un canovaccio scritto… e non so se esiste.
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