• 16 Settembre 2021

Di sguardi complessi e paesi reali

Alfabetizzazione al racconto delle aree interne

di Michele Citoni (da orticalab.it)

16 settembre 2021

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Un intervento che dialoga con la stesura del Manifesto delle Terre dell’Osso dello Sponz Fest. «Se non sai raccontarti, non sai immaginarti»: non abbiamo ancora la lingua adatta per questo racconto, io intendo l’attraversamento dei territori come disponibilità alle relazioni, come sforzo di avvicinamento. C’è da chiedersi ora quanto le nostre narrazioni retroagiscano sulle politiche.

Nel 2006, durante il montaggio del mio primo documentario girato nelle aree interne del sud – Terre in moto, che è visibile QUI – ebbi una piccola discussione con due colleghə con cui stavo lavorando al film.Montavamo una sequenza sui paesaggi dell’Alto Sele, un momento di snodo tra azioni e interviste nel quale lo sguardo si alzava sui paesaggi del cratere salernitano del terremoto dell’Irpinia, offrendo allo spettatore un momento di riflessione sulla bellezza in relazione e in contrasto con le difficili vicende storico-sociali del post sisma dell’80.

Ero convinto che dovessimo inserire in quella sequenza di boschi e montagne anche l’inquadratura di una carcassa arrugginita di un’automobile, che avevamo ripreso in mezzo a una campagna impervia senza peraltro riuscire a risolvere il mistero di come quell’auto potesse essere finita lì, così lontano dalla strada. Insistendo per quella scelta di montaggio ebbi l’impressione di essere giunto, per primo fra i tre, ad avvicinarmi, in un certo senso accettandola e sentendola “mia”, alla bellezza contraddittoria, sofferta, sporca di quei paesaggi.

Sostenni che inserire o meno quei pochi secondi di immagine avrebbe potuto fare la differenza tra prendere la direzione interpretativa che potesse più avvicinarci al “vero”, oppure una opposta, che mi pareva ormai fuorviante, falsamente conciliante. Sono convinto che anche nella lettura di quel rottame d’automobile sperduto, oltre ovviamente che in altri elementi di quella esperienza forse molto più importanti, ci debba essere qualcosa che sta in relazione con il fatto che il viaggio e il lavoro per quel documentario mi abbiano segnato profondamente e abbiano costituito, per me in particolare, l’apertura di una porta verso questi territori, che ho attraversato e continuato ad attraversare senza mai richiuderla.

Dieci anni dopo portai un altro collega a realizzare insieme a me un nuovo documentario – Traduzioni – questa volta sul versante avellinese (Aquilonia, Bisaccia, Calitri, Conza, Lioni). Durante il viaggio in auto verso sud cercai di raccontare le mie esperienze irpine del decennio precedente e di tracciare per l’interlocutore, che non aveva mai attraversato i luoghi dove avremmo lavorato, alcuni punti di riferimento essenziali. Dissi che a mio parere avremmo dovuto rivolgere al paesaggio uno sguardo privo di censure, includendo le note stonate, le “stecche” che avessimo eventualmente incontrato.

La reazione fu perplessa: figuriamoci, disse il collega, si tratta pur sempre di un film che nasce da una domanda di promozione del territorio e queste persone alla fine chiedono una bella cartolina. In generale, non aveva torto. Ma in quel caso i fatti lo smentirono perché furono proprio Katia Fabbricatti ed Enzo Tenore, architettə, attivistə e protagonistə della storia che raccontavamo che, nel promuovere un’azione territoriale alimentata di passione e attaccamento ai luoghi, consegnarono alla telecamera una riflessione sulle perversioni della ricostruzione post sisma, le architetture scadenti, l’invasione scriteriata degli impianti eolici, elementi che però, nonostante tutto, non avevano compromesso la “potenza ancestrale” – questo fu il termine che utilizzarono nell’intervista – di quei paesaggi.

Ma, ripeto, aveva ragione il mio collega: è raro che dal territorio, tantomeno da chi se ne fa rappresentante, emerga, o almeno si esprima liberamente verso interlocutori esterni, questo tipo di sguardo maturo e complesso. Ed è ciò che mi è tornato in mente pochi giorni fa leggendo della nuova guida Lonely Planet della Campania, che include un’ampia descrizione dell’Irpinia. Non ho in mano il volume, cito quindi dal pezzo di Maria Fioretti che ne riferisce su questa testata.

Tra parentesi, ci tengo a segnalare il grande lavoro che Maria Fioretti, a opportuna distanza dalle archistar, sta facendo nella esplorazione del tema “aree interne” interpellando una per una tutte le voci che stanno esprimendo i pensieri più acuti e meno stereotipati, più utili, insomma, per confrontarsi sui valori da apprezzare e i problemi da affrontare. Ecco la citazione della Lonely Planet, presumo non manipolata se non per l’inserimento dei grassetti, riportata QUI:

Di una bellezza non convenzionale e tutt’altro che trendy, l’Irpinia non è per tutti: le laceranti ferite inferte dai terremoti nel corso dei secoli mostrano ovunque le loro cicatrici, attraverso il depauperamento del patrimonio artistico e la sovrabbondanza di discutibili costruzioni moderne. Tuttavia, pochi territori sono in grado di trasmettere in egual misura la forza dirompente del proprio carattere: nessun evento sismico ha svilito le suggestive tradizioni radicate nei secoli, villaggi abbandonati e castelli in rovina sembrano rianimarsi sullo sfondo di una struttura grandiosa, fatta di boschi, verdi vallate, montagne solcate da eremi, colline accarezzate da filari di vite o ulivi. La carica evocativa dei siti come il Santuario di Montevergine, l’Abbazia del Goleto o l’area naturale di Mefite accende l’animo di atmosfere mistiche, suggestioni pagane e pura poesia. E così, rimbalzando da un borgo abbarbicato sulla cima di un colle a un altro e scoprendo straordinari prodotti enogastronomici, nell’aspra provincia di Avellino vi immergerete non solo in un’area ruvida e selvaggia, ma anche in una diversa dimensione della bellezza.

Arrivo al punto: lo stesso testo è stato orgogliosamente citato sui social da Campania Artecard, servizio di promozione turistica di Regione Campania e Scabec (società campana beni culturali), proprio alla vigilia di un evento di grande impatto comunicativo per l’Alta Irpinia come lo Sponz Fest. Ma ecco come quel passaggio viene riportato il 14 agosto su Facebook dalla pagina Campania Artecard:

Di una bellezza non convenzionale e tutt’altro che trendy, l’Irpinia non è per tutti: villaggi abbandonati e castelli in rovina sembrano rianimarsi sullo sfondo di una natura grandiosa, fatta di boschi, verdi vallate, montagne solcate da eremi, colline accarezzate da filari di vite o ulivi; e così, rimbalzando da un borgo abbarbicato sulla cima di un colle a un altro e scoprendo straordinari prodotti enogastronomici, nell’aspra provincia di Avellino vi immergerete non solo in un’area ruvida e selvaggia, ma anche in una diversa dimensione della bellezza.

Mi pare evidente che qui i tagli, peraltro non segnalati da puntini, rovescino l’intenzione del testo originale. Al punto che la dichiarazione «l’Irpinia non è per tutti», che in Lonely Planet sembra un’affermazione in sintonia con quella ricerca di “verità” nel paesaggio che evocavo all’inizio, si traduce nel suo opposto, in una classica retorica pubblicitaria che vende un’“esperienza esclusiva” contemporaneamente a centinaia di milioni di consumatori, come un’auto sportiva e dal motore ruggente che sfreccia fra dolci colline verdi nella bruma del mattino.

La logica sottesa a questo linguaggio è esattamente quella del consumo individuale, dell’appropriazione singola e solitaria di un bene posizionale. Una logica che sento opposta con quello che cerchiamo di fare ogni volta che pratichiamo la condivisione, promuoviamo esperienze di autosviluppo, prendiamo parte a comunità dinamiche e ibride di abitanti, ritornanti, soggetti provenienti da fuori che si impegnano attorno a patrimoni da tutelare e/o azioni di sviluppo locale. Anche perché c’è sempre quella carcassa d’automobile che integra il paesaggio naturale, e se chi guarda non la troverà mai “bella” in base ai canoni cui molto marketing territoriale si riferisce, nemmeno potrà trovargli un posto, un senso, se non praticando relazioni nel territorio ed esercitando, in esse e grazie ad esse, uno sforzo di comprensione storico-sociale.

Capisco le esigenze della sintesi, non voglio amplificare un episodio che può semplicemente essere originato da una piccola disattenzione, né del resto tirarmi fuori da questo campo problematico perché sono consapevole che i miei stessi racconti audiovisivi siano esposti a rischi di riduzionismi, semplificazioni, stereotipizzazioni.

La circostanza che ho citato mi sembra tradire una difficoltà, forse un imbarazzo, che allude a un tema che riguarda tutte e tutti noi che vogliamo “raccontare le aree interne”: il punto è che non abbiamo ancora la lingua adatta per questo racconto, un codice adatto al suo referente. Provando ad assumere lo specifico punto di vista di chi fa professionalmente promozione turistica, penso si possa dire che la congruenza del messaggio sia preferibile per impostare un rapporto proficuo e duraturo con il consumatore. Molto banalmente: se mi vendi la Val d’Orcia e poi in realtà di notte sulla SS 303 mi trovo in una discoteca di lucine intermittenti generata dalle pale eoliche; se mi parli di “un’area ruvida e selvaggia” ma poi sull’Ofantina verso Avellino, dal viadotto che passa sopra Cassano, subisco l’impatto scioccante della città diffusa che mi si spalanca a valle con la sua edilizia dispersa, eredità tangibile del post terremoto, posso seccarmi fortemente, e magari chiederne conto all’agenzia di viaggi.

Ma non si tratta semplicemente di una questione di opportunità, né di un tema generalmente etico. E non mi cimento in un discorso specifico sulla comunicazione turistica, per il quale sono poco titolato. Onestamente non so se il problema che pongo possa realmente avere ricadute nella comunicazione turistica. So che io intendo l’attraversamento dei territori come disponibilità alle relazioni con gli abitanti, come sforzo reale di avvicinamento. Ma sono ormai a mia volta, in Alta Irpinia, più un nuovo abitante che un turista.

Il tema che mi interessa è quanto osservava qualche anno fa Filippo Tantillo, allora nel ruolo di coordinatore scientifico del team di supporto al comitato nazionale per le aree interne, in un’intervista curata da Stefania Crobe, ricercatrice di arte e studi urbani, per il Giornale delle Fondazioni.
Così Filippo: Se non sai raccontarti, o ti racconti male, non sai immaginarti. Nella mia esperienza questo vale anche per i territori, la progettazione peggiore viene proprio da quei posti che non hanno, per i motivi più svariati, l’orgoglio di raccontare il proprio passato, o ne fanno un racconto “scolastico” e stereotipato.

Se questo è vero, forse vale la pena di porre il tema del racconto dei territori come una chiave di accesso a tutta la questione del loro empowerment. Anche perché i racconti sono incredibilmente moltiplicati dall’evoluzione tecnologica. Le nostre rappresentazioni del territorio rimbalzano di smartphone in smartphone, di social in social e c’è da chiedersi quanto reatroagiscano sulle politiche, a qualsiasi scala esse si pongano. Ma se ci poniamo questo problema, penso che dovremmo individuare il conseguente obiettivo di una diffusa albabetizzazione critica al racconto, e che occorra strutturare a questo fine degli istituti di formazione.

Non so dire in questa sede come debbano essere fatti: penso a scuole del territorio, ma non a inutili ripetizioni di strutture con funzioni identiche o simili in un comune e in quello accanto. Magari non dovrebbe trattarsi di scuole classicamente intese, la cui sostenibilità sarebbe un punto interrogativo, quanto piuttosto di momenti cadenzati di incontro. Spazi strutturati di confronto e autoformazione dove giovani youtuber si incontrino con cronisti delle testate locali, operatori dello sviluppo locale con chi fa comunicazione istituzionale, titolari di start-up con personale tecnico della SNAI, per imparare a raccontare e a raccontarsi con consapevolezza.

Claudio Vedovati, redattore del Tgr Rai del Molise che con i suoi servizi da tutta la regione sta facendo un lavoro esemplare, decisamente superiore alla media in termini di attenzione antropologica e cura della lingua, così ragionava giusto un anno fa commentando l’editoriale di un quotidiano locale che celebrava le numerose qualità del Molise:

Vuoto d’identità riempito con le favole; bisogno di riconoscimento mascherato da autosufficienza; sindrome da narcisismo delle piccole differenze che trasforma tutto in qualcosa di unico; difficoltà a raccontarsi che si trasforma in un discorso consolatorio e vuoto sulle eccellenze e la bellezza; una regione che si crede una nazione che basta a se stessa, da cui i giovani fuggono e che vive di trasferimenti dallo stato; terra felice in cui i problemi vengono da fuori.

Non si tratta di “provincialismo”, ma di un problema più profondo, la rimozione radicale e sistematica della realtà, che negli esseri umani è un segno di depressione. Rapporto con la realtà significa cambiamento, problemi da affrontare, verità con cui fare i conti. Non basta dunque l’orgoglio, serve anche l’intelligenza, il lavoro su di sé e il duro confronto con la realtà.Confrontarsi con la realtà e raccontarla è un lavoro difficile che, in certa misura, necessita anche di addestramento. Pensiamoci insieme.

Ma il racconto del territorio non è un’operazione neutrale: la produzione di rappresentazioni complesse capaci di confrontarsi con il reale può mettere in discussione gerarchie e consuetudini, perciò incontra reazioni di rimozione nelle quali a prevalere sembra essere una dimensione metastorica in cui la realtà non ha posto. A questo conflitto occorre attrezzarsi.

di Michele Citoni (da orticalab.it)

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