Come vestivano nel capoluogo
Il vestire dei campobassani prima e dopo l’Unità d’Italia
di Arnaldo Brunale – fb
1 dicembre 2021
Diversamente dai paesi della provincia, che hanno avuto e conservano ancora oggi i loro bellissimi costumi tradizionali (Campochiaro, Bojano, Guardiaregia, Baranello, Roccamandolfi, S. Giovanni in Galdo, ecc.), la gente campobassana, non ha mai avuto un costume vero e proprio che la distinguesse, ma vestiva alla francese ed alla spagnola, una moda risalente addirittura al XVII secolo, anche se, quel modo di abbigliare, spesso variopinto ed originale, soprattutto delle donne contadine (ampie gonne, camicette sbuffanti, cuffiette sulla testa e fazzolettini che avvolgevano le loro spalle), per certi versi riadattato ai gusti locali, farebbe pensare ad un costume vero e proprio. Ne sono testimonianza le affermazioni del Nauclerio del 1688 e dello Stendardo del 1732 nei loro Apprezzamento del Feudo di Campobasso. Questo modo di vestire è andato via via scemando nel tempo, esattamente dalla seconda metà dell’800 fino agli inizi del ‘900, quando incominciò ad avvertirsi progressivamente l’influenza della moda d’oltreoceano, favorita dall’emigrazione di ritorno. Nel 1857, in un suo manoscritto sugli usi e i costumi di Campobasso, donato alla nostra Biblioteca Provinciale, Pasquale Albino affermava:
“…Può dirsi quasi omessa del tutto l’antica foggia di vestire dei nostri contadini; ne avanza qualcuno che ricorda il costume patrio…”.
I Maestri Antonio ed Alfredo Trombetta, pittori e fotografi, che operarono a Campobasso dal 1879 al 1962, hanno lasciato, nella loro casa di corso Vittorio Emanuele, un acquerello raffigurante due tipi di vestito femminile del primo ‘800: uno, molto appariscente, che le nostre donne indossavano nel giorno del matrimonio, utilizzandolo dopo anche nelle ricorrenze speciali o che, addirittura, le accompagnava sul letto di morte; uno, meno appariscente, per uso giornaliero o lavorativo. Osservando bene il disegno si è in grado di descrivere gli abiti femminili con sufficiente precisione; mentre, per quello maschile, si fa riferimento alle attendibili fonti scritte di Pasquale Albino del 1857 e di Ada Trombetta del 1989.
Relativamente ai vestiari afferenti al periodo anteriore al XIX secolo, la grande proliferazione dei costumi nel nostro Molise, e nel Meridione dell’Italia in generale, risale alla dominazione borbonica, quando i regnanti, per distinguere gli abitanti di un paese dall’altro, o quelli provenienti da regioni governate da altre signorie, imposero l’uso di questo originalissimo abbigliare ai propri sudditi, che si diversificò, per colori e fattura, da zona a zona del regno.
La donna campobassana, prima del periodo preso in esame, quindi, aveva due tipi di vestiti: uno giornaliero ed uno festivo. A volte, però, ne possedeva uno solo che indossava nelle grandi occasioni. Essi non differivano molto tra di loro se non per i colori e per alcuni accorgimenti degli accessori. Il vestito giornaliero invernale era costituito da una gonna di panno (‘ónna), mentre in estate era di cotonina o di fustagno a tinta unita o a quadri con terminale bordato a coste orizzontali di colore rosso e blu, alternate da grosse pieghe (chiēcune). Questo indumento era plissettato alla vita ed era coperto da un grembiule arricciato (mandérella) in tinta verde. La camicia (cammìscia), di cotone (chéttone) o di lino, era bianca. Il corpetto (bbàschina), munito di maniche sbuffanti, era dello stesso tessuto e della stessa fantasia della gonna. Non aveva bottoni, era corto ed era portato aperto sul davanti per consentire la visione dei monili. Sul corpetto, la donna indossava uno scialle a mezza ruota (mandigliāna), lungo fino alla vita, fatto con lana del Tibet (lana ‘é tìbbe). Esso era di colore rosso carminio o avorio. Completavano il costume due fazzoletti, di circa un metro l’uno, dai colori molto accesi: uno per la testa e l’altro per le spalle (scòlla) che, all’occorrenza, veniva incrociato sul petto. Le scarpe, di colore nero, bordate da una guarnizione verde o nera, avevano il mezzo tacco ed un piccolo bottone metallico per la chiusura. Le calze (càūze), di cotone lavorato ai ferri, erano bianche per la città e marrone per la campagna.
La donna sposata portava sul vestito la catena d’oro (serracolle e/o cannacca), donatale dal marito il giorno del fidanzamento ufficiale. Il monile era appuntato sul lato sinistro del petto per fare sapere alla gente di essere sposata. La nubile, invece, aveva una piccola catenina d’oro fissata sul lato destro per segnalare di essere libera da vincoli sentimentali. Relativamente alla cosmesi personale, risulta che le donne, fino agli anni trenta del secolo passato, non amassero truccarsi molto, preferendo apparire semplici e fresche, anche se si è portati a pensare che le modeste risorse finanziare fossero la vera causa di quella scelta. Le poche a cui piaceva farlo, non avendo molto da spendere, ricorrevano a piccoli espedienti per impreziosire i lineamenti del volto e dei capelli, come quello di adoperare la polvere di carbone (caréōne) per ombreggiare gli occhi, l’ortica (àrdica) per rinforzare le chiome, l’olio di casa (óglie) per dare brillantezza ai capelli, il bicarbonato (carbunate) per la pulizia dei denti.
Il modo di vestire degli uomini, nella prima metà dell’800, era molto semplice. Il pantalone (càūzone) dei giorni feriali era di panno di lana blu, mentre quello dei giorni festivi era di velluto celeste o avana. Il pantalone dei giorni feriali era tenuto fermo a mezza gamba da alcuni grossi bottoni di ottone, mentre quello dei giorni festivi li aveva d’argento. La camicia era di cotone o di lino bianco con colletto rovesciato. Il corpetto, a doppio petto, era di panno scarlatto (rattìne), ornato con tre coppie di bottoni dorati e ne aveva altri due sui risvolti. La grossa giacca di panno nero, lunga fino al ginocchio, aveva il collo rovesciato e due bottoni di stoffa per l’abbottonatura. I pantaloni erano tenuti fermi alla vita da una cintura multicolore tessuta in casa, con pendenti frangiati laterali. Il cappello (cappiēlle) di feltro nero era a forma di cono tronco privo delle tese. I calzettoni (caūzéttune), lavorati ai ferri, erano di colore bianco o turchino, per i giorni festivi, marrone per quelli lavorativi. Le scarpe (trùnghése) erano di cuoio colore nero, con grosse fibbie di metallo ed erano rinforzate alla punta con piccole piastre metalliche semicircolari (céndrelle) per non fare usurare la suola. Completava il vestito un fazzolettone di seta o di cotone dai colori molto vivaci. Esso era piegato a forma di triangolo ed era annodato al collo.
Dalla seconda metà dell’800 in poi, come già affermato, il vestire dei campobassani incominciò a cambiare progressivamente, per fare sfoggio di abiti più variegati anche se, a volte, eccentrici.
L’abbigliare delle donne, in particolar modo se riferito al mondo contadino, artigianale e operaio, differentemente dagli uomini, spesso era appariscente, soprattutto nelle feste e nelle grandi occasioni. La considerevole quantità di monili indossati, spesso di bassa caratura aurea, superava i limiti dell’eleganza facendole cadere in quello che oggi, adoperando un termine anglosassone, si direbbe “kitch”. Quel modo di agghindarsi rappresentava per loro, soprattutto per chi aveva raggiunto il benessere con grandi sacrifici, il riscatto dalla povertà e dagli stenti che per tanti anni le aveva fatte sentire a disagio nei riguardi delle donne appartenenti al ceto medio-borghese, che, invece, indossavano i loro ornamenti preziosi con sobrietà e con naturale eleganza. Cosicché, in quei giorni, si assisteva per le strade ad una policroma passerella di donne che ostentavano, con grande orgoglio, tutti i loro gioielli. Gli spilloni di filigrana o d’argento, le spille (spìngule), i cammei, le collane di corallo e d’oro che facevano bella mostra sugli abiti, gli anelli (aniēlle) di tutte le fogge che ornavano le dita, le rendevano oltremodo stravaganti, tanto che, a giusta ragione, per loro fu coniato il termine pacchiāna, cioè persona che vestiva in modo esageratamente vistoso tanto da tracimare nel cattivo gusto. Su questa appariscente abitudine di vestire si riporta un passo dell’Albino del 1857 ripreso da uno dei suoi manoscritti conservati presso la Biblioteca Provinciale di Campobasso (Sezione Molisana, n. 846). Il periodo è immediatamente antecedente a quello preso in esame, tuttavia rappresenta una attendibile testimonianza degli usi e dei costumi della nostra gente nella seconda metà dell’800, reiteratasi nel tempo fino al primo decennio del ‘900.
“…Or vedasi tra i contadini l’uso del gilet di seta, dei cappellini di felpa, della giacca di castoro, dei calzoni lunghi e taluno ancora con la scarpetta di vitello di Francia. Il che è un lusso goffo, dannoso, smodato. Peggio ancora della donna loro. Tutte sogliono mettere un grande interesse ad avere una grande quantità di ornamenti d’oro e farne mostra massima nei dì festivi e nelle feste popolari. Spesso accade d’incontrare di quelle che si mettono tante collane e lacci e senacoli d’oro al collo ed al petto da sembrare quasi una bacheca ambulante d’orefice e infilzano a tutte le dita tanti anelli da non poterle muovere… Negli artigiani il lusso è smodato e le loro donne spesso li costringono a spese che qualche gentiluomo proprietario non fa per la sua famiglia, o almeno difficilmente. Tutto questo lusso non è indizio di agiatezza, mentre pochi son quelli che lo sostengono a loro spese; la maggior parte vi occorre facendo debiti che non sempre si soddisfano e che cresciuti per gli interessi non possono pagarsi con agevolezza, massime quando gli oggetti comprati con denaro ad usura e si distruggono con l’uso…”.
Solo a partire dagli anni ‘20 del secolo passato l’abbigliare della gran parte della gente campobassana mutò radicalmente, abbandonando gli abiti ottocenteschi ed accostandosi, per gusto e per foggia, ad un modo di vestire più vicino ai nostri tempi, seppure differenziandosi in molti particolari. Al riguardo, Venanzio Vigliardi, in Trent’anni sotto il Monforte, così scriveva sul modo di agghindarsi dell’uomo:
“…Era di moda in quegli anni il mustacchio e con esso la paglietta…. Altro elemento dell’eleganza maschile la “farfalla” al colletto della camicia; la giacca veniva confezionata dai sarti – che in città formavano un piccolo esercito – a tre, quattro ed anche cinque bottoni. In una foto scattata durante una manifestazione popolare è una mareggiata di pagliette: con una tesa ripiegata sulla fronte o sulla nuca, rotonde, a cocuzzolo, a piramide, schiacciate. In mano un bastoncino: altra raffinatezza dell’epoca…”.
di Arnaldo Brunale – fb